Capitolo 16 Progresso tecnico, occupazione e standard di vita nel lungo periodo

Le tendenze di lungo periodo e le differenze tra paesi in termini di tenore di vita e disoccupazione dipendono dal progresso tecnico, dalle istituzioni e dalle politiche adottate.

Nel 1412 il Consiglio municipale di Colonia proibì la produzione di filatoi da parte di un artigiano locale, temendo che questa innovazione potesse portare alla disoccupazione dei lavoranti tessili che utilizzavano fusi tradizionali. Nel XVI secolo, le nuove macchine per la tessitura furono bandite in gran parte dell’Europa. Nel 1811, in Inghilterra, durante la prima fase della Rivoluzione Industriale, il movimento luddista protestò con veemenza contro l’introduzione delle nuove macchine che permettevano di risparmiare forza lavoro, come i telai meccanici che consentivano a un singolo operaio di produrre la stessa quantità di filo che in precedenza era realizzata da 200 lavoratori. Il movimento era capeggiato da un giovane artigiano, Ned Ludd, che, si dice, arrivò a distruggere i telai.1

L’economista svizzero Jean-Charles-Léonard de Sismondi (1773–1842) immaginava un nuovo mondo dove il re, tutto solo nella sua isola, azionando degli automi con il movimento incessante di una manovella, è in grado di produrre quanto l’intera Inghilterra. La recente impennata nell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione ha portato numerosi economisti contemporanei, incluso Jeremy Rifkin, a manifestare le stesse paure.2

Le argomentazioni avanzate da Sismondi e Rifkin sono certamente plausibili. Come abbiamo visto nel Capitolo 1, tuttavia, l’introduzione di innovazioni che riducono l’utilizzo di manodopera ha permesso a diversi paesi di muoversi verso la parte crescente del bastone da hockey della storia, sperimentando una crescita significativa del proprio tenore di vita. Le retribuzioni dei lavoratori sono aumentate considerevolmente: basti pensare al bastone da hockey dei salari reali descritto nel Capitolo 2 (figura 2.1). La “fine del lavoro”, prevista dal filosofo Bertrand Russell già nel 1932, deve ancora verificarsi. Russell, che della liberazione dal lavoro non aveva alcuna paura, sosteneva che “in questo mondo si lavor[a] troppo, e che mali incalcolabili [sono] derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa; insomma, nei moderni paesi industriali bisogna predicare in modo ben diverso da come si è predicato sinora”.

La tesi che il progresso tecnico si accompagni necessariamente a un aumento del tasso di disoccupazione non corrisponde a verità. Al contrario, le innovazioni hanno reso possibile l’innalzamento dei salari minimi che le imprese sono in grado di offrire riuscendo comunque a coprire i propri costi. Il progresso tecnico rende disponibili all’impresa maggiori risorse per aumentare la produzione, stimolando nuovi investimenti. Concentrandosi solo sulla distruzione di posti di lavoro, chi si preoccupa della fine del lavoro spesso trascura il fatto che le innovazioni tecniche labour-saving (ossia le innovazioni che generano un risparmio di forza lavoro) incoraggiano gli investimenti che, a loro volta, favoriscono l’occupazione.

Ogni anno, nella maggior parte delle economie per le quali sono disponibili dati, il 10% circa dei posti di lavoro viene distrutto e un numero simile di nuovi posti viene creato. In Francia e nel Regno Unito, ogni 14 secondi, un posto di lavoro viene rimpiazzato da uno nuovo. Questo fenomeno è parte integrante del processo di distruzione creatrice tipico delle economie capitalistiche, le cui caratteristiche sono state descritte nei capitoli 1 e 2.

Nel breve periodo, naturalmente, la perdita del posto di lavoro comporta un costo notevole. Agli occhi di chi si ritrova disoccupato, inoltre, il breve periodo potrebbe non sembrare affatto breve: potrebbe durare anni, talvolta decenni. A beneficiare della distruzione creatrice possono essere i figli dell’artigiano tessile rimpiazzato dal telaio meccanico o quelli del dattilografo rimpiazzato dal computer. Essi potranno trovare un’occupazione in settori più produttivi rispetto a quelli in cui erano impiegati i propri genitori e avranno accesso a beni e servizi realizzati grazie a innovazioni tecniche quali il telaio meccanico e il computer.

Talvolta succede che la fase distruttiva del processo di distruzione creatrice colpisca settori concentrati in una medesima area territoriale, con conseguenze gravi in termini di occupazione e salari. Le famiglie e le comunità che ne sono colpite spesso riescono a riprendersi solamente dopo generazioni. Oggi, ad esempio, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) stanno trasformando la nostra società; stanno rimpiazzando gran parte del lavoro di routine, finendo spesso con l’impoverire ulteriormente fasce sociali già povere. Molti lavoratori che in passato avevano accarezzato l’idea di un miglioramento del proprio tenore di vita si sono ritrovati a fare i conti con un peggioramento delle proprie prospettive occupazionali.

Ciononostante, la maggioranza delle persone ha potuto beneficiare della riduzione dei prezzi dovuta alle nuove tecnologie. Nel bene e nel male, la distruzione creatrice derivante dal progresso tecnico è parte del dinamismo che caratterizza il sistema economico capitalistico. Se da un lato questo dinamismo causa difficoltà a molte persone e minaccia in maniera crescente l’ambiente, dall’altro esso determina l’adozione di tecnologie via via migliori, che sono un elemento chiave per il miglioramento degli standard di vita nel lungo periodo. Come vedremo:

La figura 16.1 mostra l’andamento del tasso di disoccupazione in 16 paesi OCSE tra il 1960 e il 2014.

Tasso di disoccupazione in alcuni paesi OCSE (1960–2014).

Figura 16.1 Tasso di disoccupazione in alcuni paesi OCSE (1960–2014).

Dati dal 1960 al 2004: howell.ea.2007 Dati dal 2005 al 2012: OECD Statistics.

I tassi di disoccupazione, mantenutisi a livelli modesti e simili nei diversi paesi durante tutti gli anni Sessanta, hanno cominciato a divergere a partire dagli anni Settanta, in parte in conseguenza delle misure adottate per fronteggiare le crisi petrolifere, descritte nel Capitolo 14. Di tutti i paesi considerati, solamente il Giappone (JPN), l’Austria (AUT) e la Norvegia (NOR) hanno visto il proprio tasso di disoccupazione rimanere sempre al di sotto del 6%. In Spagna (SPA) la disoccupazione si è mantenuta intorno al 20% dagli anni Ottanta fino alla fine del decennio successivo, dimezzandosi negli anni Duemila e superando poi nuovamente il 20% nel 2009 a causa della crisi finanziaria e della successiva crisi dell’Eurozona. L’andamento del tasso della Germania (GER) nell’ultimo decennio è peculiare: nel periodo successivo alla crisi finanziaria globale, infatti, la disoccupazione è andata calando.

Se nel lungo periodo non vi è stata alcuna tendenza generalizzata alla crescita dei tassi di disoccupazione, gli standard di vita hanno invece subito miglioramenti considerevoli, verificatisi di pari passo con due importanti mutamenti del mercato del lavoro: come abbiamo visto nel Capitolo 3 (figura 3.1), la media annuale delle ore lavorate è andata riducendosi, mentre si è registrato un aumento della quota di individui in età adulta che percepisce un reddito da lavoro, dovuto principalmente all’aumento dell’occupazione femminile.

L’andamento dei tassi di disoccupazione riportati nella figura 16.1 non può essere spiegato in termini di differenze nei tassi di innovazione o nella scansione temporale delle diverse ondate di innovazione nei diversi Paesi. Esso riflette, invece, differenze nelle istituzioni e nelle politiche economiche da essi adottate.

Come hanno fatto gli standard di vita a crescere nel lungo periodo senza che i modi di produzione a elevata intensità del capitale portassero a una disoccupazione di massa? Cominciamo la nostra analisi andando a studiare i processi di accumulazione del capitale (ossia l’incremento dello stock di macchinari e impianti) e delle infrastrutture (come strade e porti), che da sempre giocano un ruolo fondamentale nel determinare il dinamismo delle economie capitalistiche.

Esercizio 16.1 Ricchezza e soddisfazione

Come abbiamo visto nel Capitolo 3, il progresso tecnico determina un aumento della produttività oraria. Questo implica che, a parità di ore lavorate, potremmo aumentare la produzione e i consumi, o che, viceversa, potremmo continuare a produrre e consumare le medesime quantità di beni lavorando di meno e godendo di più tempo libero.

L’economista Olivier Blanchard sostiene che la differenza tra Stati Uniti e Francia in termini di prodotto pro-capite è dovuta, almeno in parte, alla scelta dei Francesi di utilizzare una frazione dell’aumento della produttività per disporre di più tempo libero anziché consumare di più.

  1. Pensa a due paesi, come ad esempio Francia e Stati Uniti. Il numero di ore lavorate e il PIL pro-capite sono inferiori nel primo paese rispetto secondo. Ipotizzando che la soddisfazione dei cittadini per le proprie condizioni di vita sia determinata unicamente da consumo e tempo libero, in quale paese ti aspetti che la soddisfazione complessiva sia più elevata? Perché? Rispondi specificando le assunzioni che hai fatto circa le preferenze dei cittadini di ciascun paese.
  2. Considerando unicamente le ore lavorate e il PIL pro-capite, in quale paese (Francia o Stati Uniti) preferiresti vivere, e perché? La tua risposta ambierebbe considerando anche altri fattori?

Domanda 16.1 Scegliete le risposte corrette

La Figura 16.1 riporta l’andamento dei tassi di disoccupazione in 16 paesi OCSE tra il 1960 e il 2014. Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • Non vi è alcuna correlazione tra i tassi di disoccupazione dei diversi paesi.
  • Negli ultimi trent’anni, in tutti i paesi vi è stata una chiara tendenza all’aumento del tasso di disoccupazione.
  • I tassi di disoccupazione dei diversi paesi sono stati influenzati in modo diverso dagli shock petroliferi degli anni Settanta.
  • In seguito alla crisi finanziaria globale del 2008, il tasso di disoccupazione è cresciuto in tutti i paesi.
  • Nella maggior parte dei paesi il tasso di disoccupazione si è attestato su livelli bassi durante tutti gli anni Sessanta, per poi crescere nei due decenni successivi e subire una modesta diminuzione alla fine degli anni Novanta. Questo andamento suggerisce una modesta correlazione positiva tra i tassi dei diversi paesi.
  • Il grafico non evidenzia alcun trend crescente della disoccupazione dagli anni Ottanta a oggi.
  • In seguito agli shock petroliferi, il tasso di disoccupazione è cresciuto in tutti i paesi. Alcuni di essi — come la Spagna e l’Irlanda — hanno però conosciuto un aumento della disoccupazione consistente, mentre in altri — come il Giappone, l’Austria e la Norvegia –l’incremento è stato contenuto.
  • In Germania, dopo il 2008, il tasso di disoccupazione è calato.

16.1 Progresso tecnico e tenore di vita

rendita da innovazione
La differenza tra i profitti ottenuti da un’impresa che innova introducendo una nuova tecnica, forma organizzativa o strategia di marketing e il costo opportunità del capitale.
distruzione creatrice
Nome dato da Joseph Schumpeter al processo che fa sì che le innovazioni spazzino via le tecniche antiquate e le imprese che non riescono ad adattarsi e che quindi non possono competere nel mercato. Secondo lui, il fallimento delle imprese non profittevoli è un processo di creazione perché libera forza lavoro e beni capitali che possono essere usati in nuove combinazioni.
beni capitali
Attrezzature, stabilimenti e altri input di carattere durevole (inclusi brevetti e proprietà intellettuali) usati dall’impresa per la produzione di beni o servizi. Non sono beni capitali le materie prime e i semilavorati.

Nel Capitolo 2 abbiamo visto come, grazie all’introduzione di nuove tecnologie, le imprese possano percepire rendite da innovazione di matrice Schumpeteriana. Le imprese che non riescono a innovare (o che copiano gli innovatori) sono incapaci di vendere il proprio prodotto a un prezzo superiore al costo di produzione e finiranno presto o tardi per fallire. Questo processo di distruzione creatrice ha portato a un considerevole miglioramento degli standard di vita medi in virtù del fatto che il progresso tecnico e l’accumulazione di beni capitali sono tra loro complementari: ciascuno fornisce, cioè, le condizioni necessarie per l’altro.

Il secondo punto necessita di una spiegazione più dettagliata. Cominciamo con il considerare la funzione di produzione utilizzata nei Capitoli 2 e 3. Abbiamo visto che la quantità di output prodotta dall’impresa dipende dalla quantità di input lavoro utilizzata, e cha la funzione che descrive questa relazione si sposta verso l’alto a causa del progresso tecnico, a significare che ciascuna unità di lavoro è in grado di produrre più output di quanto non facesse in precedenza. Nel Capitolo 3 abbiamo studiato il problema di un contadino che dispone di un ammontare fisso di terra; abbiamo assunto, cioè, che la dotazione di beni capitali fosse data. Tuttavia, come abbiamo visto, l’ammontare di beni capitali a disposizione dei contadini è molto maggiore oggi di quanto non fosse un tempo.

intensità di capitale
La quantità di beni capitali per ciascun lavoratore.
produttività del lavoro
Produzione totale divisa per il numero di ore di lavoro o altra misura della quantità di lavoro.

Andiamo ora a introdurre i beni capitali (attrezzature, macchinari e impianti) nella funzione di produzione. Guardando il grafico nella figura 16.2, notiamo che l’asse orizzontale misura l’ammontare di beni capitali per lavoratore. Questa grandezza viene detta in gergo intensità di capitale. Sull’asse verticale abbiamo invece il prodotto per lavoratore, cioè la produttività del lavoro.

Funzione di produzione e progresso tecnico.

Figura 16.2 Funzione di produzione e progresso tecnico.

I rendimenti decrescenti del capitale

La funzione di produzione è caratterizzata da rendimenti del capitale decrescenti.

Figura 16.2a La funzione di produzione è caratterizzata da rendimenti del capitale decrescenti.

Il prodotto marginale del capitale

La parte ingrandita del grafico in corrispondenza del punto A mostra come si calcola la produttività marginale del capitale. Essa corrisponde alla pendenza della retta tangente alla funzione di produzione nel punto A.

Figura 16.2b La parte ingrandita del grafico in corrispondenza del punto A mostra come si calcola la produttività marginale del capitale. Essa corrisponde alla pendenza della retta tangente alla funzione di produzione nel punto A.

Produttività marginale e intensità del capitale

Muovendoci lungo la funzione di produzione, possiamo notare che la produttività marginale del capitale decresce al crescere dell’intensità del capitale.

Figura 16.2c Muovendoci lungo la funzione di produzione, possiamo notare che la produttività marginale del capitale decresce al crescere dell’intensità del capitale.

Il progresso tecnico

Il progresso tecnico determina uno spostamento della funzione di produzione verso l’alto.

Figura 16.2d Il progresso tecnico determina uno spostamento della funzione di produzione verso l’alto.

La funzione di produzione iniziale

In corrispondenza del punto B sulla funzione di produzione iniziale, il capitale per addetto e il prodotto per addetto ammontano, rispettivamente, a 20.000 e 15.000 dollari.

Figura 16.2e In corrispondenza del punto B sulla funzione di produzione iniziale, il capitale per addetto e il prodotto per addetto ammontano, rispettivamente, a 20.000 e 15.000 dollari.

L’effetto del progresso tecnico

Consideriamo ora il punto C sulla nuova funzione di produzione (che rispecchia l’effetto del progresso tecnico). In corrispondenza di questo punto il capitale per addetto e il prodotto per addetto sono cresciuti, rispettivamente, a 30.000 e 22.500 dollari.

Figura 16.2f Consideriamo ora il punto C sulla nuova funzione di produzione (che rispecchia l’effetto del progresso tecnico). In corrispondenza di questo punto il capitale per addetto e il prodotto per addetto sono cresciuti, rispettivamente, a 30.000 e 22.500 dollari.

La pendenza della funzione di produzione

Abbiamo scelto il punto C perché, in corrispondenza di quel punto, la pendenza della funzione di produzione (e quindi la produttività marginale del capitale) è pari alla pendenza registrata in corrispondenza del punto B.

Figura 16.2g Abbiamo scelto il punto C perché, in corrispondenza di quel punto, la pendenza della funzione di produzione (e quindi la produttività marginale del capitale) è pari alla pendenza registrata in corrispondenza del punto B.

La produttività media del capitale

La linea blu tratteggiata passa per l’origine e interseca le due funzioni di produzione in corrispondenza dei punti B e C. La sua pendenza misura la produttività medio del capitale in corrispondenza di quei punti.

Figura 16.2h La linea blu tratteggiata passa per l’origine e interseca le due funzioni di produzione in corrispondenza dei punti B e C. La sua pendenza misura la produttività media del capitale in corrispondenza di quei punti.

Così come nel Capitolo 3, la funzione di produzione è caratterizzata da rendimenti del capitale decrescenti: all’aumentare del capitale per addetto cresce anche l’output, ma a un tasso via via minore (Tempi Moderni, film diretto e interpretato da Charlie Chaplin nel 1936, mostra che vi è un limite alla quantità di macchine che un operaio può utilizzare contemporaneamente). Al crescere della quantità di beni capitali per addetto, dunque, il prodotto marginale del capitale diminuisce. La pendenza della funzione di produzione in corrispondenza di ciascun livello del capitale per addetto misura la produttività marginale del capitale. Essa rappresenta l’aumento dell’output ottenuto a fronte di un aumento unitario della dotazione di beni capitali per addetto.

Nella figura 16.2, la porzione di grafico ingrandita in corrispondenza del punto A mostra come calcolare la produttività marginale del capitale. La dicitura Y/lavoratore denota l’output per addetto, mentre il prodotto marginale del capitale (PMgK) è ΔYK. Per ciascun livello di capitale per addetto, il prodotto marginale del capitale è dato dalla pendenza della tangente alla funzione di produzione.

Leibniz: La Funzione di produzione
Leibniz: Produttività media e marginale

I precedenti Leibniz ci hanno insegnato le regole algebriche per calcolare la produttività marginale del capitale in corrispondenza di ciascun punto della funzione di produzione.

funzione concava
Una funzione è concava se, presi due punti qualsiasi sulla curva che la rappresenta, il segmento che li unisce sta interamente al di sopra della curva stessa (una funzione è convessa se il segmento è interamente al di sotto della curva).

La figura 16.2 mostra come la produttività marginale del capitale si riduca man mano che ci si sposta verso destra lungo la funzione di produzione. Una funzione di produzione che presenta rendimenti decrescenti del capitale è concava: tale forma della funzione rispecchia il fatto che l’output per addetto cresce al crescere dal capitale per addetto, ma meno che proporzionalmente rispetto ad esso.

La concavità della funzione implica che non è possibile ottenere un aumento sostenuto dell’output per addetto soltanto attraverso l’aumento della dotazione di beni capitali. La produttività marginale del capitale, infatti, finirebbe per diventare così bassa da non rendere conveniente investire ulteriormente per aumentare la dotazione di capitale. Come abbiamo visto nel Capitolo 14, gli imprenditori investono nel proprio paese solo se il rendimento dell’investimento è maggiore di quanto è possibile ottenere acquistando titoli o investendo all’estero. Allo stesso tempo, i rendimenti devono essere sufficientemente elevati da far sì che gli imprenditori non decidano di spendere il proprio denaro in beni di consumo.

Il sostenimento della crescita economica rende necessarie innovazioni che aumentino la produttività del capitale. L’introduzione di nuove tecniche produttive sposta verso l’alto la funzione di produzione e rende più appetibili gli investimenti, facendo in questo modo aumentare l’intensità del capitale. La figura 16.2 mostra come la combinazione di progresso tecnico e investimenti in beni capitali generi un aumento dell’output per addetto.

taylorismo
Innovazione nel management finalizzata alla riduzione dei costi di lavoro; consiste ad esempio nella suddivisione di un compito complesso in una molteplicità di compiti più semplici che possono essere svolti da lavoratori meno qualificati, così da ridurre la remunerazione del lavoro.

Il termine innovazioni tecniche comprende anche l’adozione di nuove modalità di organizzazione del lavoro. Occorre ricordare che la tecnologia è un insieme di istruzioni per la trasformazione di input in output. La rivoluzione manageriale nota come taylorismo, avvenuta all’inizio del XX secolo, è un ottimo esempio di innovazione organizzativa: le modalità di utilizzo di lavoro e capitale vennero riorganizzate secondo la logica della catena di montaggio, e nuovi sistemi di supervisione furono adottati al fine di garantire l’impegno dei lavoratori. Più recentemente, l’introduzione delle tecnologie dell’informazione ha permesso a ciascun ingegnere di collaborare in tempo reale con migliaia di altri ingegneri e macchinari in tutto il mondo. La rivoluzione ICT ha dunque spostato la funzione di produzione verso l’alto, aumentandone la pendenza in corrispondenza di ciascun livello di capitale per addetto.

Nella figura 16.2 notiamo una retta tratteggiata di colore blu che passa per l’origine degli assi e interseca la vecchia e la nuova funzione di produzione. La pendenza di questa retta misura la produttività media del capitale in corrispondenza del punto in cui la retta interseca ciascuna funzione di produzione; la produttività media è misurata infatti come il rapporto tra l’output e il capitale per addetto. Guardando il grafico, possiamo dunque concludere che i punti B e C delle due funzioni di produzione sono caratterizzati dalla stessa prodottività media del capitale.

Per capire come il progresso tecnico e l’accumulazione di capitale influenzino la crescita, concentriamoci sulle economie leader nel campo della tecnologia. Il Regno Unito ha mantenuto il ruolo di leader a partire dalla Rivoluzione Industriale fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per poi cedere il primato agli Stati Uniti. Nella figura 16.3 sono rappresentati il capitale per addetto in ascissa e l’output per addetto in ordinata.

Diamo ora un’occhiata alle traiettorie descritte dall’economia britannica e da quella statunitense. Cominciamo con il Regno Unito. L’intervallo temporale considerato va dal 1760 (l’angolo in basso a sinistra del grafico) al 1990 e denota un marcato incremento di produttività e intensità del capitale. Nell’angolo in basso a destra della figura è riportato anche il familiare grafico a forma di bastone da hockey che mostra l’andamento del PIL pro capite nel tempo. Più si sale lungo il bastone da hockey, maggiori sono l’intensità del capitale e la produttività. La produttività statunitense ha superato quella britannica a partire dal 1910. Nel 1990, l’intensità del capitale e la produttività erano visibilmente più elevate negli USA che nel Regno Unito.

Le traiettorie di lungo periodo di alcune economie.

Figura 16.3 Le traiettorie di lungo periodo di alcune economie.

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Il Regno Unito

Le serie storiche vanno dal 1760 (angolo in basso a sinistra del grafico) al 1990. L’intensità del capitale e la produttività sono cresciute in modo evidente.

Figura 16.3a Le serie storiche vanno dal 1760 (angolo in basso a sinistra del grafico) al 1990. L’intensità del capitale e la produttività sono cresciute in modo evidente.

allen.2012

Il PIL pro-capite

Il grafico più piccolo a destra della figura mostra gli stessi punti riordinandoli in modo da rappresentare il familiare bastone da hockey del PIL pro-capite.

Figura 16.3b Il grafico più piccolo a destra mostra gli stessi punti riordinandoli in modo da rappresentare il familiare bastone da hockey del PIL pro-capite.

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Gli Stati Uniti

La produttività degli Stati Uniti ha superato quella britannica nel 1910 ed è rimasta più elevata da allora.

Figura 16.3c La produttività degli Stati Uniti ha superato quella britannica nel 1910 e da allora è rimasta più elevata.

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Giappone, Taiwan e India

Le traiettorie relative alle economie di Giappone, Taiwan e India confermano che l’accumulazione di capitale e l’adozione di nuove tecnologie sono condizioni necessarie per muoversi lungo il bastone da hockey degli standard di vita.

Figura 16.3d Le traiettorie relative alle economie di Giappone, Taiwan e India confermano che l’accumulazione di capitale e l’adozione di nuove tecnologie sono condizioni necessarie per muoversi lungo il bastone da hockey degli standard di vita.

allen.2012

La figura 16.3 mostra come le economie che sono oggi ad alto reddito abbiano visto la propria produttività del lavoro aumentare nel tempo in virtù di un utilizzo sempre più intensivo del capitale. Nel caso statunitense, ad esempio, il capitale per addetto (misurato in dollari del 1985) è cresciuto da 4.325 $ nel 1880 a 14.407 $ nel 1953 e a 34.705 $ nel 1990. La produttività del lavoro statunitense è invece cresciuta da 7.400 $ nel 1880 a 21.610 $ nel 1953 e a 36.771 $ nel 1990. Lo storico dell’economia John Habakkuk ha ipotizzato che, sul finire del XIX secolo, i salari statunitensi fossero elevati poiché gli operai disponevano di un’opzione di riserva: lasciare il lavoro in fabbrica ed emigrare verso il West. Questo ha spinto proprietari delle imprese a sviluppare tecnologie labour-saving.3

La crescita della produttività ha ridotto il fabbisogno di lavoro per unità di output prodotta. La paura dei luddisti e dei fautori della tesi della “fine del lavoro” era che ciò si traducesse in una riduzione permanente dell’occupazione.

Le traiettorie tracciate dalle economie considerate nella figura 16.3 hanno una forma diversa rispetto alla funzione di produzione rappresentata nella figura 16.2. Questa differenza è dovuta all’influenza simultanea del progresso tecnico e dell’accumulazione di capitale. Le economie più dinamiche crescono seguendo traiettorie simili alla linea blu tratteggiata che congiunge i punti B e C nella figura 16.2.

Nel Capitolo 1 abbiamo visto che paesi diversi sono arrivati in momenti diversi al punto di svolta del bastone da hockey dell’economia. Consideriamo ad esempio i casi di Giappone, Taiwan e India, rappresentati nella figura 16.3. Nel 1990, il capitale per addetto giapponese non solo superava quello statunitense, ma era quasi il doppio di quello britannico. Anche Taiwan, nel 1990, poteva vantare un’intensità del capitale superiore a quella del Regno Unito. Il primato degli Stati Uniti in termini di produzione di massa e conoscenza scientifica si è ridotto nel tempo in conseguenza degli investimenti in istruzione e ricerca e sviluppo realizzati dagli altri paesi. Molti di questi paesi hanno inoltre adottato tecniche manageriali simili a quelle statunitensi.4

Utilizzando il modello di produzione schematizzato nella figura 16.2 per interpretare i grafici della figura 16.3, possiamo notare che, man mano che diventavano ricchi, i paesi considerati hanno adottato metodi di produzione a intensità del capitale via via crescente. Pur avendo sperimentato un considerevole progresso tecnico, tuttavia, le economie di Giappone e Taiwan sono rimaste caratterizzate da valori di output per addetto inferiori a quelle britannica e statunitense. Esse sono rimaste, cioè, su una funzione di produzione più bassa.

Riassumendo:

Il progresso tecnico ha giocato un ruolo fondamentale nel far sì che i rendimenti decrescenti dovuti all’accumulazione di beni capitali non impedissero la crescita del tenore di vita.

Domanda 16.2 Scegliete le risposte corrette

Nel grafico seguente è rappresentata la funzione di produzione di un’economia prima e dopo il progresso tecnologico.

Sulla base di queste informazioni, quale di queste affermazioni è corretta?

  • Il prodotto medio del capitale nel punto B è 20.000 / 15.000 = 1,33.
  • Il prodotto marginale del capitale nel punto C è (22.500 – 15.000) / (30.000 – 20.000) = 0,75.
  • La concavità della funzione di produzione denota rendimenti marginali decrescenti del capitale.
  • In seguito al progresso tecnico, la produttività marginale del capitale cresce mentre la produttività media del capitale rimane costante per un dato livello di capitale per addetto.
  • Il prodotto medio del capitale nel punto B è 15.000/20.000 = 0,75.
  • Il prodotto marginale del capitale nel punto C corrisponde alla pendenza della funzione di produzione in quel punto.
  • La pendenza della curva diminuisce man mano che ci si sposta verso destra.
  • Nel grafico, i punti B e C sono caratterizzati dalla stessa prodottività medio del capitale. Il valore del capitale per addetto nei due punti, tuttavia, è diverso. Per ogni dato livello del capitale per addetto, in seguito al progresso tecnico, produttività media e produttività marginale del capitale crescono.

16.2 Il processo di creazione e distruzione di posti di lavoro

Il progresso tecnico labour-saving, del tipo illustrato nelle Figure 16.2 e 16.3, permette di aumentare la quantità di output prodotta utilizzando un dato ammontare di lavoro, contribuendo così all’espansione della produzione. Gli investimenti indotti dal progresso permettono di compensare la distruzione di posti di lavoro e potrebbero perfino far crescere l’occupazione al di sopra del livello pre-innovazione. Se il numero di posti di lavoro creati è superiore al numero di posti distrutti, l’occupazione cresce. Quando il numero dei posti di posti distrutti è superiore, l’occupazione cala.

stock
Una grandezza misurata in un istante; la sua misura non ha una dimensione temporale. Vedi anche: flusso
flusso
Una grandezza misurata in rapporto a un intervallo di tempo, come il reddito annuo o il salario orario.

Sappiamo che, in ogni istante di tempo, vi sono persone involontariamente disoccupate. Ciascuna di queste vorrebbe cioè lavorare ma non trova un’occupazione. Il numero di individui disoccupati è una variabile di stock, ossia una variabile che non è misurata in riferimento ad un intervallo di tempo. Il suo valore cambia, di giorno in giorno e di anno in anno, quando un disoccupato viene assunto o rinuncia a cercare un’occupazione, quando un lavoratore perde il proprio posto o quando qualcuno entra per la prima volta nel mercato del lavoro (al termine degli studi secondari superiori e universitari, ad esempio). Spesso ci si riferisce a coloro che non hanno un lavoro come al “bacino” dei disoccupati; le persone che trovano un lavoro o smettono di cercarne uno escono dal bacino, mentre coloro che perdono il proprio lavoro vi entrano. Il numero di persone che perdono e trovano lavoro è una variabile di flusso, ossia riferita a un intervallo di tempo.

Il processo di riallocazione dei posti di lavoro è dato dalla somma dei processi di creazione e distruzione. Il tasso di crescita netto dell’occupazione è di solito piccolo ma positivo.

Nella figura 16.4 sono riportati i valori relativi alla crescita netta dell’occupazione e alla distruzione e creazione di posti di lavoro in alcuni paesi. Nel Regno Unito, tra il 1980 e il 1998, il numero di posti distrutti è stato superiore al numero di posti creati e si è registrata quindi una riduzione dell’occupazione. Nonostante i paesi siano caratterizzati da diversi livelli di sviluppo economico e diversi gradi di apertura agli scambi internazionali, i tassi di riallocazione dei posti di lavoro sono grosso modo simili: nella maggior parte delle economie considerate, la quota di posti di lavoro creati o distrutti ogni anno è pari circa a un quinto, nonostante il tasso di crescita netta dell’occupazione possa essere significativamente diverso.

Distruzione e creazione di posti di lavoro e occupazione netta in alcuni paesi.

Figura 16.4 Distruzione e creazione di posti di lavoro e occupazione netta in alcuni paesi.

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Un pianificatore sociale potrebbe cercare di spingere il sistema economico a creare nuovi posti di lavoro, ad esempio nella misura del 2% annuo, senza che altri posti di lavoro vengano distrutti (ossia, con un tasso di distruzione di posti di lavoro nullo); in questo caso, il tasso di crescita netta dell’occupazione sarebbe anch’esso pari al 2%. La figura 16.4 mostra però che, nella realtà, le economie capitalistiche non funzionano in questo modo, non essendovi alcun pianificatore sociale. La concorrenza e la prospettiva di ottenere rendite economiche fanno sì che la creazione di alcuni posti di lavoro possa comportare la distruzione di altri posti.

Per farci un’idea di come il processo di creazione e distruzione del lavoro possa trasformare un settore industriale, consideriamo l’impatto avuto, a partire dagli anni Novanta, dalla rivoluzione delle tecnologie dell’informazione nel settore della distribuzione negli Stati Uniti. L’adozione di sistemi di lettura dei codici a barre alle casse, l’introduzione di dispositivi per consentire il pagamento con carte di credito e bancomat e le nuove tecniche manageriali di gestione degli inventari e delle relazioni con i clienti hanno permesso un aumento vertiginoso della produzione per addetto. Pensiamo ad esempio al volume di transazioni gestite da ciascun cassiere in uno dei nuovi outlet.

Gli studi empirici mostrano che la crescita della produttività del lavoro verificatasi negli anni Novanta nel settore della distribuzione è da imputarsi interamente alla maggiore produttività dei nuovi stabilimenti (fabbriche e punti vendita), che hanno rimpiazzato quelli meno produttivi (inclusi i vecchi stabilimenti delle imprese innovative, divenuti obsoleti, e gli impianti e punti vendita delle imprese fallite, la cui chiusura ha portato alla perdita di posti di lavoro).

Nella figura 7.1 del Capitolo 7 abbiamo documentato l’incredibile aumento delle assunzioni di Walmart, impresa leader nel settore della grande distribuzione statunitense. La crescita di Walmart è in parte dovuta all’apertura di punti vendita più efficienti in località di periferia, resa possibile dall’introduzione di nuove tecnologie logistiche e di commercio all’ingrosso.

Per quanto riguarda il settore manifatturiero, i dati disponibili relativi all’economia mondiale mostrano come la crescita della produttività sia legata alla creazione e distruzione di posti di lavoro sia all’interno delle singole imprese sia attraverso l’entrata e uscita delle imprese dal mercato. I dati relativi alla Finlandia nel periodo 1989–1994, ad esempio, rivelano che il 58% della crescita della produttività è avvenuto all’interno delle imprese (in modo analogo a quanto successo a Walmart). L’uscita dal mercato delle imprese scarsamente produttive ha contribuito all’incremento della produttività per il 25%, mentre il 17% è da imputarsi alla riallocazione dell’occupazione e della produzione da imprese scarsamente produttive verso imprese ad elevata produttività.

Il settore delle costruzioni in Francia rappresenta un altro esempio di riallocazione del lavoro da imprese più deboli a imprese più forti. Secondo l’istituto nazionale di statistica francese, nei settori a bassa produttività (e in particolare nelle imprese appartenenti al quartile meno produttivo) il numero di posti di lavoro distrutti è superiore a quello dei posti creati. I posti creati e distrutti tra il 1994 e il 1997, ad esempio, ammontano rispettivamente al 7,1% e al 16,1% del totale; questo implica che, nelle imprese meno produttive, l’occupazione si è ridotta del 9%. Nello stesso periodo, nelle imprese appartenenti al quartile più produttivo, la creazione di posti di lavoro ha superato la distruzione di quelli già esistenti (17,1% contro 11,8%).

Esercizio 16.2 Schumpeter rivisitato

  1. Nel Capitolo 2 abbiamo introdotto il concetto di distruzione creatrice, utilizzato da Joseph Schumpeter per spiegare il funzionamento delle economie capitalistiche. Spiega con parole tue il significato di questo termine.
  2. Basandoti sulla tua definizione, fornisci un esempio di distruzione e creazione di lavoro. Specifica chi sono i vincitori e i vinti di questo processo nel breve e nel lungo periodo.

16.3 Flussi di lavoro, flussi di lavoratori e curva di Beveridge

potere negoziale
Il vantaggio di cui gode una parte rispetto alle altre, che le consente di assicurarsi una porzione maggiore delle rendite economiche generate da un’interazione (ad esempio una contrattazione).
prociclico
Tendenza a muoversi, nell’ambito del ciclo economico, nella stessa direzione della produzione aggregata e dell’occupazione. Vedi anche: anticiclico
anticiclico
Tendenza a muoversi, nell’ambito del ciclo economico, in direzione opposta rispetto alla produzione aggregata e all’occupazione. Vedi anche: prociclico
curva di Beveridge
La relazione inversa tra tasso di disoccupazione e quota di posti vacanti (entrambe le quantità espresse come percentuale della forza lavoro). Prende il nome dall’economista britannico William Beveridge (1879-1963).

I posti di lavoro sono creati e distrutti da imprenditori e manager in cerca di rendite Schumpeteriane da innovazione o in risposta alle pressioni esercitate dalla competizione nei mercati dei beni e servizi. Per i lavoratori questo si traduce nel fatto che nulla è destinato a durare per sempre: nel corso della propria vita le persone intraprendono e cessano numerose attività lavorative (spesso non per scelta propria). A volte ci si muove da un lavoro a un altro, altre volte si entra o si esce dal bacino dei disoccupati.

Nel Capitolo 5 abbiamo analizzato le decisioni di un datore di lavoro (Bruno) e un lavoratore (Angela) per quanto riguarda ore lavorate e affitto di un terreno agricolo. Abbiamo spiegato come il rapporto di lavoro, sostituita la minaccia di usare la violenza con un sistema formale di leggi e contratti, fosse stipulato volontariamente da ciascuna parte per ragioni di vantaggio reciproco. Certo, la bilancia del potere negoziale pendeva dalla parte di Bruno; ciononostante, lo scambio era volontario.

La perdita del lavoro può essere volontaria oppure involontaria, come nel caso di una messa in cassa integrazione (dovuta a difficoltà produttive e di fatturato dell’impresa) o di un licenziamento per esubero del personale.

I posti di lavoro vengono anche creati, come si può evincere guardando la figura 16.5. La creazione di posti di lavoro è fortemente prociclica, ossia cresce nei periodi di boom e cala durante le recessioni. Al contrario, la distruzione di lavoro è anticiclica, ossia cresce durante le fasi recessive (se l’andamento di una variabile non è correlato al ciclo economico, essa viene detta aciclica). Nel prossimo paragrafo mostreremo come le politiche economiche influenzino le oscillazioni nel numero di lavoratori e di posti di lavoro.

La considerazione del ruolo che lo Stato poteva avere nel fornire ai lavoratori l’assicurazione contro la perdita del lavoro derivante dall’intenso processo di riallocazione del lavoro spinse l’economista britannico William Beveridge (1879–1963) a promuovere la creazione di un sistema pubblico di protezione sociale. ma Beveridge non è ricordato solo come uno dei padri fondatori dei moderni sistemi di welfare; come già per Bill Phillips, al suo nome è associata una curva, detta per l’appunto curva di Beveridge.

Abbiamo introdotto il concetto di assicurazione reciproca nel Capitolo 13, spiegando come le famiglie che hanno visto la propria ricchezza crescere in un dato periodo possano utilizzare i propri risparmi per aiutare le famiglie che attraversano un periodo difficile. Nel Capitolo 14 abbiamo spiegato che l’esistenza di rischi correlati limita l’efficacia di queste misure mutualistiche e che gli stati possono giocare un ruolo importante introducendo forme di tutela assicurativa pubblica quali, ad esempio, i sussidi di disoccupazione.

Creazione e distruzione di posti di lavoro durante i cicli economici negli stati Uniti (2000–2010).

Figura 16.5 Creazione e distruzione di posti di lavoro durante i cicli economici negli stati Uniti (2000–2010).

davis.faberman.ea.12

La curva di Beveridge

Secondo Beveridge esiste una chiara relazione tra il numero di posti di lavoro vacanti e il livello della disoccupazione (il numero di individui in cerca di un lavoro), entrambi espressi in rapporto alla forza lavoro. Egli osservò che a valori elevati della disoccupazione corrispondeva una quota modesta di posti vacanti; viceversa, quando la disoccupazione era bassa, la quota di posti vacanti si attestava su valori elevati.

La relazione di proporzionalità inversa che lega il tasso di posti vacanti e il tasso di disoccupazione nelle diverse fasi del ciclo economico è rappresentata nella figura 16.6. La figura mostra due esempi della cosiddetta curva di Beveridge; i dati si riferiscono all’economia tedesca e a quella statunitense e ciascun punto rappresenta un trimestre del periodo 2001–2015.

La curva di Beveridge negli Stati Uniti e in Germania (2001–2015).

Figura 16.6 La curva di Beveridge negli Stati Uniti e in Germania (2001–2015).

OECD Employment Outlook e OECD Labour Force Statistics. OECD Statistics.

Perché, se il numero dei disoccupati in cerca di un lavoro è positivo, vi sono posti vacanti che non vengono coperti? Il matching tra lavoratori e posti di lavoro presenta diversi aspetti problematici. Si pensi, per analogia, alle relazioni amorose: quanto spesso ci capita di cercare il partner perfetto ma di non trovare nessun candidato idoneo?

matching nel mercato del lavoro
Le modalità con le quali avviene l’incontro tra chi offre e chi domanda lavoro.

Tra i fattori che contribuiscono a impedire che i disoccupati vadano a coprire le posizioni lavorative vacanti, intralciando il processo di matching nel mercato del lavoro, vi sono.

Natasha Singer. 2014. ‘In the Sharing Economy, Workers Find Both Freedom and Uncertainty’. The New York Times. Aggiornato il 16 agosto 2014.

In teoria, quanto più grande è il bacino dei disoccupati, tanto più facile dovrebbe essere l’incontro tra lavoratori e posti di lavoro. Il contemporaneo verificarsi di un’elevata disoccupazione e un elevato tasso dei posti vacanti è indicatore del fatto che il processo di matching è inefficiente.

Osservando le curve di Beveridge tedesca e americana rappresentate nella figura 16.6, possiamo notare tre cose:

Come si spiega questo miglioramento nel mercato del lavoro tedesco? Un ruolo importante è stato giocato dalle cosiddette riforme Hartz. Attuate tra il 2003 e il 2005, le riforme Hartz hanno introdotto strumenti per indirizzare i lavoratori verso nuove opportunità di occupazione e hanno ridotto la durata dei sussidi di disoccupazione, incentivando così il processo di ricerca attiva di lavoro.

Michael Burda e Jennifer Hunt. 2011. ‘The German Labour-Market Miracle’. VoxEU.org. Aggiornato il 2 novembre 2011.

Anche la curva statunitense è andata spostandosi nel tempo. A differenza di quanto accaduto nel caso tedesco, tuttavia, la situazione è andata peggiorando. Tra il 2001 e il 2009, l’economia USA sembra essersi spostata lungo la stessa curva. In seguito si è verificato uno spostamento della curva verso nord-est, la qual cosa suggerisce che il processo di matching statunitense sia diventato meno efficiente con il passare del tempo. I dati relativi alla ricollocazione geografica dei disoccupati all’interno del paese sono rimasti simili lungo tutto l’intervallo di tempo considerato, e non vi sono state dunque variazioni rilevanti a livello di disparità geografica tra posti vacanti e domanda di lavoro; perché, allora, la curva di Beveridge si è spostata?

Vincent Sterk. 2015. ‘Home Equity, Mobility, and Macroeconomic Fluctuations’. Journal of Monetary Economics (74): pp. 16–32.

A causa di questi due fattori l’economia statunitense si è spostata verso una situazione nella quale, a parità di posti vacanti, il tasso di disoccupazione era maggiore.

Esercizio 16.3 Le curve di Beveridge e il mercato del lavoro tedesco

Stando alle curve di Beveridge, il mercato del lavoro tedesco è più efficace di quello statunitense nel garantire l’incontro di chi offre e chi cerca lavoro. La figura 16.6, tuttavia, mostra che vi sono stati periodi in cui la disoccupazione era in media più elevata in Germania che negli USA (ad esempio, il quadriennio che va dal primo trimestre del 2001 al primo trimestre del 2005).

Richiamando il paragrafo 13.2 sulla legge di Okun e il paragrafo 14.10 sulla relazione tra domanda aggregata e disoccupazione, si provi a ipotizzare quale ruolo possa aver avuto la domanda aggregata nel determinare questo esito. Che tipo di dati si potrebbero usare per dare supporto all’ipotesi formulata?

Domanda 16.3 Scegliete le risposte corrette

Il grafico sottostante mostra le curve di Beveridge negli Stati Uniti e in Germania nel periodo 2001–2005. Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • Le curve di Beveridge evidenziano una relazione negativa la quota di posti vacanti e il tasso di occupazione.
  • Durante la crisi finanziaria del 2008–2009, l’economia statunitense ha favorito il matching di lavoratori e posti di lavoro meglio di quanto non abbia fatto l’economia tedesca.
  • Lo spostamento della curva di Beveridge statunitense dopo la crisi finanziaria è indicatore di una maggiore efficienza del processo di matching.
  • Il matching tedesco è migliorato in seguito allo spostamento della curva di Beveridge verificatosi intorno al 2007.
  • Le curve di Beveridge mettono in relazione la quota di posti vacanti e il tasso di disoccupazione.
  • Negli anni della crisi finanziaria globale, in corrispondenza di una simile quota di posti vacanti il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è stato maggiore. Questo è indice di una maggiore inefficienza nel processo di matching.
  • Lo spostamento verso destra della curva di Beveridge degli Stati Uniti indica che il processo di matching è diventato meno efficiente.
  • La curva di Beveridge della Germania si è spostata verso sinistra: dunque, a parità di quota dei posti vacanti, il tasso di disoccupazione è diminuito. Questo cambiamento indica un miglioramento del processo di matching tedesco.

16.4 Investimenti, entrata delle imprese e curva della fissazione del prezzo nel lungo periodo

La figura 16.1 illustra come, a partire dagli anni Settanta, i tassi di disoccupazione delle economie avanzate abbiano hanno cominciato a divergere. Nel periodo più recente considerato nel grafico, paesi Europei quali Spagna, Grecia e Francia hanno registrato tassi di disoccupazione particolarmente elevati (dal 10% circa in Francia a oltre il 20% in Spagna); in altri paesi, e specialmente in quelli dell’Asia Orientale (Corea del Sud e Giappone) ed Europa settentrionale (Austria, Norvegia, Paesi Bassi, Svizzera e Germania), la disoccupazione si è invece mantenuta tra il 5% e il 6%.

Per spiegare le differenze tra paesi e l’andamento nel tempo dei tassi di disoccupazione, andiamo ad approfondire alcuni concetti introdotti nei capitoli precedenti adottando una prospettiva di lungo periodo. Caratteristica distintiva dei modelli di lungo periodo è che tutte quelle grandezze che variano lentamente nel tempo e che nel breve e medio periodo si assumono come costanti (ad esempio lo stock di capitale detenuto dalle imprese e il numero di imprese che operano nel mercato) possono variare liberamente a seconda delle condizioni economiche.

Le determinanti della performance economica nel lungo periodo

Nel lungo periodo, il tasso di disoccupazione dipenderà dalla capacità delle istituzioni e delle politiche economiche di far fronte ai due grandi problemi di incentivazione propri delle economie capitalistiche:

rischio di espropriazione
Il rischio che un bene o un’attività patrimoniale sia sottratto al suo proprietario dallo Stato o da un altro soggetto

Risolvere i due problemi contemporaneamente vorrebbe dire mantenere la disoccupazione a livelli contenuti e, allo stesso tempo, incrementare i salari. Sfortunatamente, però, le misure di politica economica che consentono di far fronte a uno dei due problemi finiscono con l’aggravare l’altro. Una politica economica che induca un marcato aumento dei salari, ad esempio, potrebbe garantire l’impegno dei lavoratori, ma al contempo potrebbe far venir meno gli incentivi che le imprese hanno a investire per creare nuovi posti di lavoro e aumentare la propria capacità produttiva. Nel prossimo paragrafo vedremo che esistono importanti differenze nel modo in cui le economie hanno saputo far fronte simultaneamente ai due problemi di incentivi.

David G Blanchflower e Andrew J Oswald. 1995. ‘An Introduction to the Wage Curve’. Journal of Economic Perspectives 9 (3): pp. 153–167.

curva della fissazione del salario
La curva che indica, per ogni livello di occupazione nell’economia, il salario reale necessario per fornire ai lavoratori l’incentivo a lavorare con l’impegno richiesto.

La curva della fissazione del salario utilizzata nei Capitoli 6, 9, 14 e 15 mostra che, quando i disoccupati si aspettano di trovare un nuovo lavoro con facilità o ricevono sussidi di disoccupazione generosi, il costo atteso della perdita del posto di lavoro è basso e quindi i salari tenderanno ad essere elevati. È per questa ragione che la curva della fissazione del salario dipende positivamente dal livello dell’occupazione e un incremento dei sussidi di disoccupazione ha l’effetto di spostare tale curva verso l’alto.

curva della fissazione del prezzo
La curva che indica il salario reale pagato dalle imprese quando queste scelgono il prezzo che massimizza il loro profitto.

Nel nostro modello del mercato del lavoro, gli incentivi dei proprietari delle imprese a investire sono rappresentati per mezzo della curva della fissazione del prezzo (si veda il Capitolo 9). Estendiamo ora tale modello al lungo periodo, cioè al caso in cui le imprese hanno la possibilità di entrare e uscire dal mercato e gli imprenditori possono aumentare o ridurre lo stock di capitale. Per semplicità si può assumere che le imprese siano tutte della stessa dimensione e che lo stock di capitale cresca o si riduca a causa di un aumento o una diminuzione del numero delle imprese. Assumiamo inoltre che i rendimenti di scala siano costanti e che dunque, nel lungo periodo, un aumento percentuale dell’occupazione si accompagni a un uguale aumento percentuale del capitale.

L’equilibrio di lungo periodo del mercato del lavoro può essere definito come una situazione nella quale i salari reali, l’occupazione e il numero delle imprese sono costanti (vale la penda ricordare che per equilibrio si intende sempre una situazione in cui le grandezze considerate non variano nel tempo a meno di cambiamenti dovuti a fattori esterni al modello).

Il numero delle imprese operanti nel mercato è determinato da due condizioni.

In quali condizioni è più probabile assistere all’uscita delle imprese dal mercato dovuta a un markup troppo basso? Una dinamica di questo tipo tende a verificarsi se l’economia è altamente competitiva, ossia se vi opera un elevato numero di imprese; questo fa sì che l’elasticità della domanda per il prodotto offerto dalle imprese sia anch’essa elevata e che il markup sia basso. Quando il numero delle imprese è troppo grande per sostenere un markup elevato, alcune di esse usciranno dal mercato causando una crescita del markup.

Analogamente, se il numero delle imprese è basso, la concorrenza sarà limitata e il markup sarà elevato. La prospettiva di profitti consistenti indurrà nuove imprese a entrare nel mercato, rendendo l’economia più competitiva e facendo calare il markup.

Il markup, dunque, ha la tendenza ad autocorreggersi: se è troppo basso, alcune imprese usciranno dal mercato facendolo crescere; se è troppo alto, nuove imprese entreranno nel mercato facendolo calare.

La figura 16.7a illustra questo processo evidenziando la relazione che intercorre tra il numero delle imprese e il markup. La retta negativamente inclinata rappresenta il markup che massimizza il profitto per ciascun possibile numero di imprese operanti nel mercato. La pendenza negativa della retta è dovuta al fatto che:

La retta orizzontale riportata nel grafico denota il markup μ* in corrispondenza del quale il numero delle imprese operanti nel mercato rimane costante nel tempo. Seguendo i passaggi descritti nella figura 16.7a possiamo capire perché il numero delle imprese rimanga stabile a 210.

Il processo di entrata e uscita delle imprese dal mercato e il markup di equilibrio.

Figura 16.7a Il processo di entrata e uscita delle imprese dal mercato e il markup di equilibrio.

Il markup che massimizza il profitto

La retta inclinata negativamente rappresenta il markup che massimizza i profitti per ciascun possibile numero di imprese operanti nel mercato. In corrispondenza del markup di equilibrio, μ*, il numero delle imprese è costante e pari a 210.

Figura 16.7aa La retta inclinata negativamente rappresenta il markup che massimizza i profitti per ciascun possibile numero di imprese operanti nel mercato. In corrispondenza del markup di equilibrio, μ*, il numero delle imprese è costante e pari a 210.

Concorrenza e numero di imprese

Maggiore è il numero delle imprese, maggiore è la concorrenza. Un aumento della concorrenza fa aumentare l’elasticità della domanda e provoca una diminuzione del markup.

Figura 16.7ab Maggiore è il numero delle imprese, maggiore è la concorrenza. Un aumento della concorrenza fa aumentare l’elasticità della domanda e provoca una diminuzione del markup.

L’uscita delle imprese dal mercato

Se il numero delle imprese è pari a 250, ci troviamo in corrispondenza del punto C. Il markup è inferiore al valore di equilibrio μ* e alcune imprese lasceranno il mercato.

Figura 16.7ac Se il numero delle imprese è pari a 250, ci troviamo in corrispondenza del punto C. Il markup è inferiore al valore di equilibrio μ* e alcune imprese lasceranno il mercato.

L’entrata delle imprese nel mercato

Se il numero delle imprese è pari a 190, ci troviamo in corrispondenza del punto B. Il markup è superiore al valore di equilibrio μ* e nuove imprese entreranno nel mercato.

Figura 16.7ad Se il numero delle imprese è pari a 190, ci troviamo in corrispondenza del punto B. Il markup è superiore al valore di equilibrio μ* e nuove imprese entreranno nel mercato.

Con l’ausilio della figura 16.7a, pensiamo ora a cosa accadrebbe se, in seguito all’insediamento di un nuovo governo, il rischio di espropriazione diminuisse. Un simile miglioramento delle condizioni per fare impresa potrebbe essere dovuto, ad esempio, a una nuova legislazione che vieti l’espropriazione coatta e impedisca al governo di variare in modo imprevedibile la tassazione. In seguito a questo miglioramento, le sarebbero disposte a operare nel mercato anche a fronte di un markup minore. Segui i passaggi nella figura 16.7b per capire come questo determini un aumento del numero delle imprese in equilibrio.

Un miglioramento delle condizioni per fare impresa: il processo di entrata e uscita delle imprese dal mercato e il markup di equilibrio.

Figura 16.7b Un miglioramento delle condizioni per fare impresa: il processo di entrata e uscita delle imprese dal mercato e il markup di equilibrio.

Un miglioramento delle condizioni per fare impresa

Questo miglioramento riduce il markup di equilibrio. Il markup corrispondente al punto A è ora troppo alto.

Figura 16.7ba Questo miglioramento riduce il markup di equilibrio. Il markup corrispondente al punto A è ora troppo alto.

Nuove imprese entrano nel mercato

L’economia cresce fino a quando il numero delle imprese non raggiunge le 250 unità.

Figura 16.7bb L’economia cresce fino a quando il numero delle imprese non raggiunge le 250 unità.

Dal markup di equilibrio alla curva della fissazione del prezzo di lungo periodo

Una volta determinati il markup μ* e il prodotto medio del lavoro λ, possiamo calcolare il salario reale w, che corrisponde alla quota della pruttività media del lavoro (ossia del prodotto per addetto) che non va al datore di lavoro sotto forma di markup. A parità di capitale per addetto, se i rendimenti di scala sono costanti, un aumento dell’occupazione può verificarsi anche se l’output per addetto rimane invariato. La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo, dunque, è piatta. Possiamo notare inoltre che, nel modello, i lavoratori occupati e disoccupati sono identici a causa della presenza di disoccupazione involontaria in equilibrio.

La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo è data da:

Come mostrato nella figura 16.8, questa relazione ci permette di passare dal markup di equilibrio al salario reale, che a sua volta determina l’altezza della curva della fissazione del prezzo. Nel grafico di sinistra, con il markup di equilibrio in ascissa e il salario in ordinata, l’equazione della curva della fissazione del prezzo di lungo periodo assume la forma di una retta orizzontale: quando il markup è zero il salario corrisponde all’output per addetto, mentre quando il markup è pari a 1 (ossia al 100%) il salario è zero.

Il grafico di destra della figura 16.8 mostra la curva della fissazione del prezzo di lungo periodo corrispondente a diversi livelli del markup di equilibrio. Sull’asse delle ascisse è riportata l’occupazione, che si intende a parità di capitale per addetto. Possiamo a questo punto riassumere i fattori che determinano uno spostamento della curva della fissazione del prezzo dovuto a una variazione del markup o dell’output per addetto.

La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo è tanto più alta:

Variazioni del markup di lungo periodo determinano uno spostamento della curva della fissazione del prezzo.

Figura 16.8 Variazioni del markup di lungo periodo determinano uno spostamento della curva della fissazione del prezzo.

La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo

Nel grafico di sinistra, l’equazione della curva della fissazione del prezzo di lungo periodo corrisponde a una retta inclinata negativamente. Sugli assi delle ascisse e delle ordinate sono riportati, rispettivamente, il markup di equilibrio e il salario reale.

Figura 16.8a Nel grafico di sinistra, l’equazione della curva della fissazione del prezzo di lungo periodo corrisponde a una retta inclinata negativamente. Sugli assi delle ascisse e delle ordinate sono riportati, rispettivamente, il markup di equilibrio e il salario reale.

Se il markup è basso

A un più basso markup di equilibrio di lungo periodo corrisponde una curva della fissazione del prezzo di lungo periodo più alta.

Figura 16.8b A un più basso markup di equilibrio di lungo periodo corrisponde una curva della fissazione del prezzo di lungo periodo più alta.

Se il markup è alto

La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo è tanto più bassa quanto più elevato è il markup.

Figura 16.8c La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo è tanto più bassa quanto più elevato è il markup.

La curva della fissazione del prezzo di lungo periodo

Una volta determinati il markup di equilibrio μ* e la produttività del lavoro λ, sappiamo che il salario reale w è pari a

dove w corrisponde all’output per addetto che non va all’imprenditore sotto forma di markup.

Cosa determina una riduzione del markup di equilibrio (cioè il valore del markup in corrispondenza del quale non vi sono imprese che entrano ed escono dal mercato)?

Esercizio16.4 Misurare le condizioni per investire

Aprite il database Doing Business della Banca Mondiale.

  1. Nella sezione Topics, selezionate 20 paesi a scelta e scaricate i dati relativi a tre fattori che influenzano le condizioni per fare impresa e che possono influenzare il markup di lungo periodo. Motivate la scelta delle variabili.

Ora aprite il database DataBank della Banca Mondiale.

  1. Scaricate i dati relativi al PIL pro-capite per i 20 paesi scselti. Per ciascuna variabile scelta al punto 1, create un grafico a dispersione riportando la variabile considerata sull’asse delle ascisse e il PIL pro-capite sull’asse delle ordinate. Se esiste una relazione tra le due grandezze, descrivetela.
  2. Spiegate perché un miglioramento delle condizioni per fare impresa potrebbe determinare un aumento del PIL pro-capite.
  3. Perché, allo stesso tempo, una crescita del PIL pro-capite potrebbe determinare un miglioramento delle condizioni per fare impresa?
  4. Sulla base delle risposte date ai punti 3 e 4, spiegate quali difficoltà pone l’interpretazione della relazione tra le variabili attraverso il grafico a dispersione.

Domanda 16.4 Scegliete le risposte corrette

Nella Figura 16.8 sono rappresentati la curva di fissazione dei prezzo di lungo periodo e il markup in corrispondenza del quale non vi sono imprese che entrano ed escono dal mercato. Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • Un aumento della concorrenza nell’economia fa abbassare la curva di fissazione del prezzo.
  • Una diminuzione del tasso di interesse fa abbassare la curva di fissazione del prezzo.
  • Una minore produttività del lavoro fa crescere la curva di fissazione del prezzo per un dato valore del markup di equilibrio μ*.
  • Una crescita del rischio di espropriazione nei mercati esteri fa crescere la curva di fissazione del prezzo.
  • Un aumento della concorrenza nell’economia fa diminuire il markup e sposta la curva di fissazione del prezzo verso l’alto.
  • Una diminuzione del tasso di interesse si traduce in una riduzione del costo-opportunità del capitale. Il saggio del profitto in corrispondenza del quale non vi sono imprese che entrano ed escono dal mercato, dunque, si riduce, facendo crescere il salario reale e la curva di fissazione del prezzo.
  • Una minore produttività del lavoro (λ) provoca una rotazione della curva di fissazione del salario reale verso l’interno (facendo perno sul valore μ* = 1 in ascissa). Ciò determina un abbassamento della curva di fissazione del prezzo per un dato valore di μ*.
  • La crescita del rischio di espropriazione nei mercati esteri fa calare il rendimento atteso degli investimenti in quei mercati, riducendo i profitti di equilibrio nel mercato interno e facendo calare il markup. Ciò determina uno spostamento verso l’alto della curva di fissazione del prezzo.

Domanda 16.5 Scegliete le risposte corrette

Quale delle seguenti affermazioni riguardanti il modello del mercato del lavoro è vera?

  • Nei modelli di breve e medio periodo lo stock di capitale è fisso, mentre nel lungo periodo tale stock può variare.
  • Il progresso tecnico labour-saving determina una crescita della disoccupazione sia nel breve sia nel lungo periodo.
  • Nel modello di lungo periodo, le imprese entrano nel mercato quando il markup è basso.
  • Nel modello di lungo periodo, il markup non dipende dal numero di imprese operanti nel mercato.
  • Questo è ciò che definisce il lungo periodo.
  • Per dato stock di capitale, il progresso tecnico labour-saving fa aumentare la disoccupazione; man mano che lo stock di capitale cresce a causa dell’entrata di nuove imprese nel mercato, tuttavia, la disoccupazione diminuisce. Nel lungo periodo, il tasso di disoccupazione potrebbe essere inferiore al valore iniziale
  • Le imprese entrano nel mercato quando il markup è alto, visto che questo comporta un profitto atteso elevato.
  • Il markup si autocorregge in seguito all’entrata e uscita delle imprese dal mercato. Un markup elevato induce nuove imprese a entrare nel mercato, facendo calare il markup; viceversa, un markup basso induce alcune imprese a uscire, facendo aumentare il markup.

16.5 Nuove tecnologie, salari e disoccupazione nel lungo periodo

Abbiamo visto che, contrariamente a quanto pensavano i luddisti, il continuo crescere della quantità di output realizzata in un’ora di lavoro non si è tradotto in un aumento duraturo della disoccupazione. Ad essere cresciuti, in media, sono i salari, non la disoccupazione.

In molti paesi, la crescita dello stock di capitale dovuta alla combinazione di progresso tecnico e investimenti ha permesso alla produttività del lavoro di raddoppiare da una generazione alla successiva. Come evidenziato dal nostro modello, il risultato di questo processo è un aumento dei salari reali; aumento che, ad ogni modo, non ha compromesso gli investimenti da parte delle imprese, essendo i profitti rimasti sufficientemente elevati da motivare gli imprenditori a investire anziché utilizzare la propria ricchezza in altri modi.

I luddisti avevano ragione a paventare un periodo di ristrettezza economica per coloro che avrebbero perso il lavoro. Ciò che non avevano considerato era il fatto che la crescita dei profitti dovuta all’introduzione di nuove tecnologie avrebbe innescato un meccanismo autocorrettivo nella forma di nuovi investimenti, e che questi investimenti, presto o tardi, avrebbero creato nuovi posti di lavoro.

Lo spostamento verso l’alto della curva della fissazione del prezzo è illustrato nella figura figura 16.9a. L’equilibrio di lungo periodo individuato in corrispondenza del punto A corrisponde a una situazione iniziale caratterizzata da una tecnologia arretrata, mentre il punto B corrisponde all’equilibrio di lungo periodo raggiunto grazie all’innovazione tecnica. Nel punto B il salario reale e il tasso di occupazione sono superiori al valore iniziale, e la disoccupazione è dunque minore. Il modello mostra che il progresso tecnico non provoca necessariamente un aumento della disoccupazione nell’intera economia.

Prima di esaminare l’andamento della disoccupazione a livello internazionale, occorre fornire una risposta alle seguenti domande:

Il tasso di disoccupazione di lungo periodo e l’effetto dell’adozione di una nuova tecnologia.

Figura 16.9a Il tasso di disoccupazione di lungo periodo e l’effetto dell’adozione di una nuova tecnologia.

Il tasso di disoccupazione di lungo periodo prima dell’introduzione della nuova tecnologia

Il valore iniziale del tasso di disoccupazione è individuato in corrispondenza del punto A.

Figura 16.9aa Il valore iniziale del tasso di disoccupazione è individuato in corrispondenza del punto A.

L’innovazione tecnica

Il progresso tecnico fa crescere l’output per addetto e sposta la curva della fissazione del prezzo verso l’alto.

Figura 16.9ab Il progresso tecnico fa crescere l’output per addetto e sposta la curva della fissazione del prezzo verso l’alto.

L’effetto di lungo periodo sull’occupazione

In corrispondenza del punto B, il salario reale è maggiore e la disoccupazione è minore.

Figura 16.9ac In corrispondenza del punto B, il salario reale è maggiore e la disoccupazione è minore.

Nuove conoscenze e nuove tecnologie: la velocità di diffusione delle innovazioni

Spesso occorrono anni, talvolta decenni, prima che una nuova tecnologia si diffonda in modo capillare in un’economia. Questo ritardo nella diffusione delle innovazioni provoca differenze tra la produttività del lavoro delle imprese tecnicamente più avanzate e la produttività di quelle che utilizzano tecnologie superate.

Uno studio ha mostrato che, nel Regno Unito, la produttività delle imprese all’avanguardia è di oltre cinque superiore rispetto alla produttività di quelle più arretrate. Differenze analoghe si registrano in Cina e in India. I dati relativi al settore dell’industria elettronica (settore fondamentale nel contesto competitivo del mercato globale) rivelano che in Indonesia, alla fine degli anni Novanta, le imprese appartenenti al 75° percentile erano otto volte più produttive di quelle appartenenti al 25° percentile.

Le imprese caratterizzate da una scarsa produttività registrano in genere tassi di profitto inferiori alle proprie concorrenti più produttive, e riescono a rimanere in attività soltanto grazie ai bassi salari pagati ai propri dipendenti. Dunque, una riduzione del ritardo che caratterizza la diffusione delle innovazioni aumenterebbe considerevolmente la velocità con cui le nuove conoscenze e tecniche di management diventano parte integrante dell’economia.

La riduzione del divario può essere favorita dalle iniziative sindacali, e in particolare dall’introduzione di standard salariali omogenei che facciano sì che i lavoratori appartenenti allo stesso settore percepiscano una eguale retribuzione in tutto il territorio nazionale. Ciò costringe le imprese meno produttive (che sono anche quelle che pagano i salari più bassi) ad aumentare le retribuzioni dei propri dipendenti, con il risultato che alcune di queste imprese cesseranno di essere profittevoli e finiranno con l’uscire dal mercato. I sindacati, inoltre, possono sostenere quelle politiche pubbliche che rafforzano l’effetto di selezione delle imprese meno produttive, facendo crescere la produttività e permettendo alla curva della fissazione del prezzo di spostarsi verso l’alto. Le attività delle organizzazioni dei lavoratori, dunque, non pregiudicano il buon esito del processo di distruzione creatrice; al contrario, possono agevolarlo.

Anche le organizzazioni rappresentative degli imprenditori possono giocare un ruolo attivo nel processo di distruzione creatrice, evitando di prolungare la vita delle imprese improduttive, la cui uscita dal mercato è parte necessaria del processo di accrescimento della produttività. Spesso, tuttavia, lavoratori e datori di lavoro si comportano diversamente, riuscendo ad ottenere sussidi, protezioni tariffarie o salvataggi che permettono, almeno per un po’, la sopravvivenza delle imprese scarsamente produttive e dei relativi posti di lavoro.

La velocità con cui la curva della fissazione del prezzo si sposta verso l’alto dipende insomma dall’atteggiamento dei principali attori economici nei confronti del processo di distruzione creatrice. Le economie possono comportarsi molto diversamente da questo punto di vista.

L’adattamento al progresso tecnico: la velocità di aggiustamento di occupazione e salari

Le economie differiscono anche nel modo in cui si verifica la transizione dall’equilibrio iniziale, che nella figura figura 16.9b è rappresentato dal punto A, a un nuovo equilibrio, come ad esempio il punto B.

Ricordiamo che la curva della fissazione del prezzo di lungo periodo è individuata in corrispondenza di quel livello dei salari reali tale da far sì che non vi siano imprese che entrano o escono dal mercato. Il passaggio dal punto A (disoccupazione al 6%) al punto B (disoccupazione al 4%) è reso possibile dal fatto che alcune imprese sono entrate nel mercato, un processo che potrebbe richiedere del tempo. Cosa succede durante la fase di transizione? I passaggi illustrati nella figura 16.9b descrivono una possibile dinamica.

L’effetto di una nuova tecnologia sul tasso di disoccupazione di lungo periodo.

Figura 16.9b L’effetto di una nuova tecnologia sul tasso di disoccupazione di lungo periodo.

La risposta all’introduzione di una nuova tecnologia

L’adozione di una nuova tecnologia fa sì che una stessa quantità di output possa essere prodotta da un numero inferiore di lavoratori. Come si aggiusta l’economia?

Figura 16.9ba L’adozione di una nuova tecnologia fa sì che una stessa quantità di output possa essere prodotta da un numero inferiore di lavoratori. Come si aggiusta l’economia?

L’implementazione della nuova tecnologia

In un primo momento, a causa della nuova tecnologia, parte dei lavoratori viene a trovarsi in esubero. Nel punto D, il salario è il medesimo registrato in corrispondenza del punto A ma il numero dei posti di lavoro è inferiore.

Figura 16.9bb In un primo momento, a causa della nuova tecnologia, parte dei lavoratori viene a trovarsi in esubero. Nel punto D, il salario è il medesimo registrato in corrispondenza del punto A ma il numero dei posti di lavoro è inferiore.

Nel punto D i profitti sono elevati

Nuove imprese saranno indotte a entrare nel mercato e gli investimenti cresceranno. La disoccupazione finirà con il diminuire e l’economia si sposterà dal punto D al punto E.

Figura 16.9bc Nuove imprese saranno indotte a entrare nel mercato e gli investimenti cresceranno. La disoccupazione finirà con il diminuire e l’economia si sposterà dal punto D al punto E.

I salari crescono

Se la disoccupazione si riduce, le imprese debbono aumentare le retribuzioni per assicurarsi che i lavoratori si impegnino adeguatamente. I salari, quindi, crescono.

Figura 16.9bd Se la disoccupazione si riduce, le imprese debbono aumentare le retribuzioni per assicurarsi che i lavoratori si impegnino adeguatamente. I salari, quindi, crescono.

Un nuovo equilibrio

Il processo di aggiustamento si arresta nel punto B, in corrispondenza del quale i salari reali sono superiori e la disoccupazione è inferiore rispetto al punto A.

Figura 16.9be Il processo di aggiustamento si arresta nel punto B, in corrispondenza del quale i salari reali sono superiori e la disoccupazione è inferiore rispetto al punto A.

Possiamo affermare che dal processo descritto tutti alla fine traggono beneficio? Ciò è vero solo confrontando il punto finale e quello iniziale, oppure ragionando su un orizzonte temporale molto lungo. Tra il manifestarsi dell’innovazione e il nuovo equilibrio di lungo periodo può infatti passare molto tempo, anni o addirittura decenni, non certo settimane o mesi. Ciò significa che degli aumenti salariali determinati dalla nuova tecnologia beneficieranno i lavoratori più giovani, mentre quelli più anziani potrebbero non arrivare a godere dei vantaggi del raggiungimento dell’equilibrio in B.

Si noti anche che, nella figura 16.9b, abbiamo assunto che il salario reale non diminuisca nel breve periodo. È però possibile che, una volta che l’economia si è spostata nel punto D, le imprese riducano i salari reali al livello individuato dalla curva di determinazione dei salari in corrispondenza del nuovo livello della disoccupazione. Una dinamica di questo tipo è tanto più verosimile quanto più lenti sono gli investimenti necessari a far transitare l’economia al punto E. Se questo è il caso, i salari potrebbero scendere a causa della pressione dovuta alla perdita di posti di lavoro prima che l’occupazione torni a crescere.

Abbiamo visto che, nel Regno Unito, l’aggiustamento dell’economia ai progressi della tecnica verificatisi nel XVIII e XIX secolo non fu rapido. La crescita dei salari reali iniziò solo intorno al 1830, con un ritardo considerevole rispetto all’inizio delle Rivoluzione industriale.

Come nel caso della velocità di diffusione delle nuove tecnologie, le politiche pubbliche, i sindacati e le associazioni imprenditoriali possono influenzare i tempi dell’aggiustamento di occupazione e salari. Le politiche governative possono facilitare la riallocazione dei lavoratori verso nuove imprese e nuovi settori industriali; queste politiche includono la messa a punto di programmi di formazione e di servizi che favoriscano l’incontro di domanda e offerta di lavoro, nonché l’erogazione di sussidi di disoccupazione significativi ma di durata limitata. Misure del genere possono accelerare la ricollocazione dei lavoratori dalle imprese non più profittevoli verso imprese più floride e produttive.

I tempi di aggiustamento possono inoltre variare a seconda del fatto che istituzioni e politiche pubbliche agevolino o meno la creazione di posti di lavoro nei settori la cui produttività è aumentata. Se i salari sono inferiori al livello individuato in corrispondenza della curva della fissazione del prezzo, i profitti sono sufficientemente elevati da permettere nuovi investimenti e la nascita di nuove imprese. Questo meccanismo è parte del processo di distruzione creatrice. In alcuni paesi, la regolamentazione del mercato dei beni e servizi e le politiche di concorrenza sono tali da rendere facile l’avvio di una nuova attività imprenditoriale. In altri paesi, le imprese presenti sul mercato hanno introdotto barriere che rendono difficile l’entrata di nuovi concorrenti, con l’effetto di rallentare o talvolta impedire il processo di aggiustamento dell’economia verso il punto B.

Tornando alla figura 16.1, potremmo chiederci perché il tasso di disoccupazioni non si riduca in modo continuo a fronte delle continue innovazioni tecniche. Il motivo è legato alla presenza di altre forze nell’economia che tendono a spostare verso l’alto la curva della fissazione del salario. Questi spostamenti possono essere il frutto dell’attività sindacale (come abbiamo visto nel Capitolo 9), ma vi sono anche altri possibili fattori in gioco:

Analizzeremo con più attenzione il ruolo di queste forze nel Capitolo 17, quando andremo a studiare la cosiddetta “età dell’oro” del capitalismo, al termine della Seconda Guerra Mondiale.

Lezioni dai processi di distruzione creatrice e stabilizzazione dei consumi

Giunti a questo punto del corso, sarà stata notata senz’altro la presenza di due temi ricorrenti:

I processi sopra descritti sono legati l’uno all’altro. Chi si trova in difficoltà a causa della perdita del proprio lavoro vivrà la disoccupazione in modo meno traumatico se ha la possibilità di evitare una riduzione dei propri consumi. Le economie differiscono considerevolmente l’una dall’altra rispetto al modo in cui, tramite le politiche pubbliche, le istituzioni e la cultura, permettono la stabilizzazione dei consumi nel tempo. Nei paesi in cui la stabilizzazione dei consumi è più agevole, la resistenza alle pressioni distruttrici e creatrici dovute al progresso tecnico sarà generalmente modesta. Nei paesi in cui mantenere stabili i consumi è difficile, lavoratori e imprese cercheranno di trovare modi per resistere (o arrestare) il processo di distruzione creatrice, preferendo difendere le imprese esistenti e i posti di lavoro da esse creati.

L’atteggiamento dei sindacati nei confronti del processo di distruzione creatrice è esemplificativo: nei paesi con efficaci strumenti di stabilizzazione dei consumi, le organizzazioni dei lavoratori tendono a non irrigidirsi nella difesa della conservazione dei posti di lavoro esistenti; esse chiederanno invece opportunità occupazionali adeguate e supporto nelle fasi di formazione e ricerca del lavoro.

legislazione a tutela dell’occupazione
Norme che rendono più costoso o difficile il licenziamento dei lavoratori.

In altri paesi, sindacati e governi cercano di preservare lo status quo e rendono difficile l’interruzione dei rapporti di lavoro anche nei casi in cui il lavoratore si è comportato in modo negligente. Questo tipo di legislazione a tutela dell’occupazione può compromettere il funzionamento del mercato del lavoro, portando a ritardi nell’aggiustamento di occupazione e salari, rallentando il processo di ammodernamento tecnologico e allo stesso tempo spostando verso l’alto la curva della fissazione del salario.

Samuel Bentolila, Tito Boeri e Pierre Cahuc. 2010. ‘Ending the Scourge of Dual Markets in Europe’. VoxEU.org. Aggiornato il 12 luglio 2010.

L’analisi delle diverse reazioni alle opportunità e sfide legate al processo di distruzione creatrice può aiutarci a capire perché alcune economie siano cresciute più di altre nella storia recente.

Domanda 16.6 Scegliete le risposte corrette

Guarda il nostro video della serie ‘Economisti in azione’ in cui John Van Reenen discute dei fattori che determinano la produttività delle imprese. Sulla base delle informazioni fornite nel video, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • L’enorme variabilità tra paesi in quanto a produttività è dovuta a differenze nelle tecniche di management.
  • L’apertura di un paese agli investimenti diretti esteri influenza la produttività più di quanto non faccia il processo di distruzione creatrice.
  • La fase “creatrice” del processo di distruzione creatrice permette di aumentare la produttività sia nel breve sia nel lungo periodo.
  • L’apertura di un paese alle importazioni può influenzare la sua produttività.
  • Le differenze nelle tecniche di management sono parte del problema, ma da sole non bastano a spiegare la variabilità tra paesi. Le differenze in termini di tecnologia e diffusione delle innovazioni sono un altro fattore fondamentale.
  • L’apertura agli investimenti diretti esteri è un fattore importante per permettere alla produttività di crescere, ma nulla nel video suggerisce che tale fattore sia più importante della distruzione creatrice.
  • Gli incrementi di produttività dovuti all’entrata di nuove imprese nel mercato e all’innovazione richiedono tempo e, in genere, si possono osservare solo nel lungo periodo. Può comunque accadere che la chiusura degli stabilimenti poco produttivi faccia aumentare la produttività media nel breve periodo.
  • L’apertura di un paese alle importazioni può favorire il diffondersi delle idee al suo interno, facilitando le innovazioni e il progresso tecnologico.

Domanda 16.7 Scegliete le risposte corrette

La Figura 16.9b mostra gli aggiustamenti di lungo periodo del mercato del lavoro dovuti al progresso tecnologico. Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • La nuova tecnologia non causa alcun incremento dell’occupazione, né nel breve né nel lungo periodo.
  • Nel punto D si assiste a un incremento degli investimenti, e quindi dell’occupazione, a causa del divario che intercorre tra il salario reale percepito dai lavoratori e la curva di fissazione dei salari.
  • Il basso livello di disoccupazione registrato nel punto E fa sì che le imprese debbano pagare ai lavoratori un salario elevato per assicurarsi che essi lavorino con impegno. Questo determina un aumento dei salari reali, che crescono fino a raggiungere il punto B.
  • L’aggiustamento dell’economia dall’equilibrio A all’equilibrio B avviene istantaneamente.
  • Nel breve periodo si assiste alla perdita di alcuni posti di lavoro ossia a un incremento della disoccupazione, come evidenziato dal movimento dal punto A al punto D.
  • Le imprese investono maggiormente in conseguenza del divario tra il vecchio livello dei salari reali (la linea continua) e il nuovo livello dell’output per addetto (la linea tratteggiata), che è causa di un aumento dei profitti.
  • Il punto E giace sotto la curva di fissazione dei salari; i lavoratori necessitano perciò di un salario elevato per essere motivati a lavorare.
  • L’aggiustamento verso il nuovo equilibrio richiede l’entrata nel mercato di nuove imprese e può per questo richiedere un tempo considerevole.

16.6 Progresso tecnologico e diseguaglianza dei redditi

breve periodo
Il termine non si riferisce a un periodo di tempo di una certa ‘breve’ durata, ma al periodo di tempo durante il quale possiamo considerare alcune variabili (valore totale dei beni capitali, tecnica, istituzioni) esogene rispetto al modello. Vedi anche: beni capitali, tecnica, istituzioni, medio periodo, lungo periodo
lungo periodo
Il termine non si riferisce a un periodo di una specifica ‘lunga’ durata, ma a un orizzonte temporale durante il quale la maggior parte delle variabili sono trattate come endogene. Una curva di costo di lungo periodo, ad esempio, si riferisce ai costi che l’impresa sostiene quando può variare le quantità di tutti gli input, compresi i beni capitali; le tecniche disponibili e le istituzioni invece si continuano a considerare esogene. Vedi anche: tecnica, istituzioni, breve periodo, medio periodo

Cosa accade alla distribuzione dei redditi in seguito all’introduzione di una nuova tecnologia che fa crescere la produttività del lavoro? Nelle figure 16.9a e 16.9b abbiamo evidenziato la differenza tra l’effetto di breve periodo e quello di lungo periodo, raggiunto una volta che la crescita dei profitti generata dall’innovazione si è tradotta in una crescita degli investimenti.

Nel breve periodo l’economia si muove dal punto A al punto D della figura 16.9b. La nuova tecnologia fa crescere il prodotto per addetto e riduce il numero degli occupati (assumiamo che il salario reale di coloro che nel punto D sono occupati rimanga invariato). Qual è l’effetto sulla diseguaglianza? Nel punto D la diseguaglianza cresce per due motivi. Primo, perché si verifica un aumento del numero dei disoccupati, i cui redditi sono bassi o talvolta nulli. Secondo, perché nel breve periodo gli unici che traggono beneficio dall’introduzione della nuova tecnologia sono gli imprenditori: la quota del prodotto che va ai datori di lavoro aumenta, come sintetizzato nella prima riga della tabella 16.1. Occorre precisare che, qualora nel punto D i salari fossero diminuiti per allinearsi alla curva della fissazione del prezzo in corrispondenza del nuovo tasso di disoccupazione, l’aumento della diseguaglianza sarebbe stato persino maggiore.

Il processo di aggiustamento dell’economia, tuttavia, non si ferma qui. Il punto D rappresentato nella figura 16.9b non è un equilibrio di Nash: in corrispondenza del nuovo livello della produttività e del vecchio livello dei salari reali, infatti, i profitti sono sufficientemente alti da indurre nuove imprese a entrare nel mercato o spingere le imprese esistenti a incrementare la produzione. Questo provoca un’espansione dell’economia, fa crescere il numero degli occupati e determina una crescita dei salari. Il processo continua finché i salari non sono sufficientemente alti da far sì che l’espansione della produzione e l’entrata di nuove imprese nel mercato si arrestino, ossia finché l’economia non raggiunge il punto B, che corrisponde al nuovo equilibrio di Nash.

  Movimento nella Figura 16.9b Occupazione Disoccupazione Quota dei salari sul prodotto Diseguaglianza
Breve periodo (il numero delle imprese e lo stock di capitale non cambiano) Da A a D Cala Cresce Cala Cresce
Lungo periodo (aggiustamento verso il nuovo equilibrio di Nash, nessun cambiamento nella curva della fissazione del salario) Da A a B Cresce Cala Nessun cambiamento Cala leggermente

Gli effetti del progresso tecnico nel modello del mercato del lavoro: breve e lungo periodo.

Tabella 16.1 Gli effetti del progresso tecnico nel modello del mercato del lavoro: breve e lungo periodo.

Il confronto tra il nuovo equilibrio di Nash (il punto B) e quello iniziale (il punto A) rivela che sia i lavoratori sia i datori di lavoro traggono beneficio dalla nuova tecnologia. Nel punto B, la quota dei salari ritorna al livello iniziale e, per effetto della riduzione del tasso di disoccupazione, anche la diseguaglianza si riduce. Si noti inoltre che, nonostante la quota dei salari in corrispondenza del punto B non sia superiore a quella registrata nel punto A, i salari reali sono più elevati.

L’effetto di lungo periodo del cambiamento tecnologico è quello di ridurre leggermente la diseguaglianza, poiché:

Per meglio comprendere come il progresso tecnologico influenzi la diseguaglianza, rappresentiamo la situazione iniziale dell’economia mediante una curva di Lorenz (introdotta nel Capitolo 5 e utilizzata nei Capitoli 9 e 10) e andiamo a vedere come il progresso tecnologico modifichi la forma della curva. Nel grafico della figura 16.10, sull’asse delle ascisse sono riportati i disoccupati, gli occupati e i datori di lavoro.

La curva “a gomito” rappresentata con una linea continua nella figura 16.10 è la curva di Lorenz corrispondente al punto A della figura 16.9b. Al crescere della disoccupazione da A a D (sull’asse delle ascisse), la curva di Lorenz si sposta verso il basso. La nuova curva è rappresentata con una linea tratteggiata. L’abbassamento del gomito rispetto alla situazione iniziale riflette il fatto che, nel punto D, la quota dei salari è inferiore rispetto al punto A. Nel lungo periodo la disoccupazione si riduce fino a B e la quota dei salari ritorna ali livello iniziale, causando uno spostamento della curva di Lorenz verso l’interno.

Seguiamo i passaggi descritti nella figura 16.10 per capire come mai la curva di Lorenz cambi forma a causa dello spostamento dell’economia verso il nuovo equilibrio.

L’effetto di una nuova tecnologia sulla diseguaglianza: breve e lungo periodo.

Figura 16.10 L’effetto di una nuova tecnologia sulla diseguaglianza: breve e lungo periodo.

La disoccupazione prima dell’introduzione della nuova tecnologia

In corrispondenza dell’equilibrio di lungo periodo iniziale, precedente all’introduzione della nuova tecnologia, una frazione A della popolazione è disoccupata (questo punto corrisponde al punto A della Figura 16.9b).

Figura 16.10a In corrispondenza dell’equilibrio di lungo periodo iniziale, precedente all’introduzione della nuova tecnologia, una frazione A della popolazione è disoccupata (questo punto corrisponde al punto A della Figura 16.9b).

L’introduzione della nuova tecnologia

Alcuni lavoratori sono ora in esubero; la disoccupazione cresce fino a raggiungere il livello D (che corrisponde al punto D della Figura 16.9b). Assumiamo che il salario dei lavoratori occupati rimanga invariato. In questo modo, la quota dei salari sul prodotto cala a causa della crescita del prodotto per addetto.

Figura 16.10b Alcuni lavoratori sono ora in esubero; la disoccupazione cresce fino a raggiungere il livello D (che corrisponde al punto D della Figura 16.9b). Assumiamo che il salario dei lavoratori occupati rimanga invariato. In questo modo, la quota dei salari sul prodotto cala a causa della crescita del prodotto per addetto.

L’effetto della crescita dei profitti

Nuove imprese entrano nel mercato e le imprese già esistenti espandono la produzione. Gli investimenti crescono e la disoccupazione diminuisce al nuovo livello di equilibrio, che corrisponde al punto B.

Figura 16.10c Nuove imprese entrano nel mercato e le imprese già esistenti espandono la produzione. Gli investimenti crescono e la disoccupazione diminuisce al nuovo livello di equilibrio, che corrisponde al punto B.

Esercizio 16.5 Progresso tecnico e diseguaglianza

Nell’Einstein del Capitolo 9 abbiamo mostrato che il coefficiente di Gini, g, può essere calcolato come segue:

dove u è la frazione dei disoccupati sul totale della popolazione, n è la frazione dei lavoratori dipendenti, 1 – n – u è la frazione dei datori di lavoro, w è il salario reale e λ è l’output per addetto. Il rapporto w/λ è detto quota dei salari ed esprime la frazione del prodotto totale acquistabile dai redditi da lavoro; wn e λn sono infatti, rispettivamente, l’ammontare totale dei salari pagati nell’economia e l’output totale prodotto dalle imprese.

Supponete che, in corrispondenza della curva di Lorenz iniziale (ossia prima dell’introduzione della nuova tecnologia), vi siano 6 disoccupati, 84 occupati e 10 datori di lavoro, i cui salari, sommati, sono sufficienti ad acquistare il 60% dell’output.

  1. Verificate che, in questo caso, l’indice di Gini è 0,336.
  2. Supponete ora che, a causa del progresso tecnico, il prodotto totale e i salari rimangano costanti ma che 4 lavoratori perdano il proprio posto di lavoro. Ciò determina un aumento dei profitti pari alla riduzione del costo del lavoro. A quanto ammontano ora la quota dei salari e il coefficiente di Gini?
  3. Assumete che nel lungo periodo vi siano 4 disoccupati, 86 lavoratori dipendenti e 10 datori di lavoro, e che la quota dei salari torni a essere pari al 60%. A quanto ammonta ora il coefficiente di Gini? Spiegate con parole vostre il motivo per cui la diseguaglianza è cresciuta nel breve periodo e si è ridotta nel lungo periodo.

Domanda 16.8 Scegliete le risposte corrette

L’introduzione di una nuova tecnologia labour-saving ha come conseguenza…

  • Un aumento della quota dei salari sul prodotto totale e un amento del coefficiente di Gini nel breve periodo.
  • Una diminuzione della quota dei salari sul prodotto totale e un aumento del coefficiente di Gini nel breve periodo.
  • Una diminuzione della quota dei salari sul prodotto totale e una diminuzione del coefficiente di Gini nel breve periodo.
  • Un aumento della disoccupazione, una diminuzione della quota dei salari sul prodotto totale e un aumento del coefficiente di Gini nel lungo periodo
  • Nel breve periodo la nuova tecnologia causa, a parità di salari e prodotto totale, un aumento della disoccupazione. Questo implica che la quota dei profitti sul prodotto cresce e che la quota dei salari diminuisce. Il coefficiente di Gini è più elevato di quanto non fosse in precedenza.
  • L’aumento della disoccupazione fa diminuire il costo totale del lavoro e quindi la quota dei salari.
  • L’aumento della disoccupazione a parità di salari e prodotto totale fa diminuire la quota dei salari ma determina altresì una crescita del coefficiente di Gini.
  • Nel lungo periodo il progresso tecnologico determina la creazione di nuovi posti di lavoro, facendo diminuire la disoccupazione. La quota dei salari rimane invariata perché il markup rimane invariato, mentre il coefficiente di Gini diminuisce.

16.7 Quanto tempo occorre al mercato del lavoro per aggiustarsi agli shock?

Quanto è lungo il lungo periodo? Nel 1923, John Maynard Keynes scrisse che:5

questo lungo periodo è una guida ingannatrice negli affari correnti. Nel lungo periodo saremo tutti morti. Gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che, quando l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo.

La nostra opinione sul punto di vista di Keynes, e in particolar modo sulla frase evidenziata in corsivo, potrebbe dipendere dalla nostra età (all’epoca Keynes aveva 40 anni, e sarebbe vissuto per 23 anni ancora). In equilibrio, usando la metafora di Keynes, l’oceano è tranquillo. Per salvare il nostro vascello, tuttavia, è importante conoscere il comportamento della tempesta, ossia sapere cosa accade nella fase di transizione da un equilibrio all’altro. Keynes era un sostenitore di quella che abbiamo definito una visione dinamica dell’economia, che pone cioè particolare enfasi sulle fasi di cambiamento.

Nel paragrafo 16.5 abbiamo studiato come, dopo una perturbazione dell’equilibrio del mercato del lavoro determinata da un’innovazione che determina la messa in esubero di alcuni lavoratori, l’economia possa transitare verso un nuovo equilibrio di lungo periodo nel quale i lavoratori trovano una nuova occupazione a un salario maggiore. Keynes sosteneva che le decisioni di politica economica debbono fondarsi sulla comprensione dei meccanismi che causano lo spostamento dell’economia da un equilibrio all’altro e che determinano la durata dei processi di transizione.

Spesso gli economisti hanno preferito tuttavia concentrarsi unicamente su ciò che Keynes definìva il “compito facile”, ossia sull’analisi delle situazioni di equilibrio. L’effetto di uno shock (dovuto, ad esempio, all’introduzione di una nuova tecnologia) è studiato andando a confrontare il nuovo equilibrio con quello iniziale. Questo approccio viene detto di “statica comparata”.

Un importante economista teorico americano, Hal Varian (1947-), spiega ai lettori del suo popolare manuale di microeconomia che le analisi di disequilibrio comportano grandi difficoltà, avvertendoli che “[nel manuale] ignoreremo la questione di come l’equilibrio viene raggiunto e ci limiteremo ad analizzare il comportamento delle […] imprese in equilibrio.”

Varian non ha torto: l’analisi degli equilibri è importante, così come è importante conoscere il modo in cui i livelli di equilibrio dell’occupazione, dei salari e dei profitti sono influenzati dalle politiche economiche adottate. Affermare che nel lungo periodo “saremo tutti morti”, inoltre, non è propriamente corretto, a meno che la prima persona plurale non si riferisca unicamente alle generazioni attualmente in vita e non tenga quindi in considerazione le generazioni future, che subiranno le conseguenze delle politiche di oggi. Nel Capitolo 4 abbiamo imparato che gli individui hanno a cuore il benessere degli altri; per questo motivo, al lungo periodo siamo interessati anche quando è molto lungo.

Se, a fronte di uno shock, l’economia si muove rapidamente da un equilibrio all’altro, l’approccio di statica comparata utilizzato da Varian è sufficiente. Al contrario, qualora il raggiungimento del nuovo equilibrio avvenga lentamente o non sia nemmeno dato sapere se l’economia raggiungerà effettivamente un nuovo equilibrio (si veda la discussione “Esistono le bolle?’ nel Capitolo 11), l’enfasi posta da Keynes sulla dinamica del processo di aggiustamento è giustificata.

Nel Capitolo 11 abbiamo spiegato che, quando un mercato non è in equilibrio, gli agenti economici possono ottenere una rendita variando la quantità o il prezzo dei beni che stanno comprando o vendendo. La ricerca di rendite economiche è parte del processo che porta al raggiungimento del nuovo equilibrio. Nel mercato del pesce, ad esempio, è possibile ottenere una rendita semplicemente offrendo o chiedendo un prezzo diverso; la transizione verso il nuovo equilibrio, in questo caso, è relativamente rapida.

Nel mercato del lavoro il processo è più lento, specialmente quando la riduzione della domanda di un prodotto causa una contrazione dell’occupazione. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che la transizione verso il nuovo equilibrio potrebbe richiedere, tra le altre cose, la messa a punto di programmi di formazione per l’acquisizione di nuove abilità o l’emigrazione dei lavoratori rimasti disoccupati verso altre regioni.

A questo riguardo, un esempio molto discusso è l’aggiustamento dell’economia USA a seguito di uno shock del mercato del lavoro, dovuto alla competizione delle imprese locali con le importazioni dalla Cina. All’inizio del secolo, dopo oltre dieci anni di crescita ininterrotta delle importazioni di prodotti cinesi, si era diffusa tra gli economisti statunitensi la convinzione che le importazioni non producessero alcun effetto di rilievo sui salari e l’occupazione; una tesi, questa, motivata dall’idea che i lavoratori impegnati nella produzione di beni in competizione con i prodotti importati potessero essere ricollocati facilmente in altre regioni o stati.

In uno dei precedenti video della serie ‘Economisti in azione’, Richard Freeman si è chiesto se i salari statunitensi non fossero forse “fissati a Pechino”. La risposta è un deciso no.

In misura crescente, tuttavia, i dati disponibili mostravano che l’aggiustamento dell’economia statunitense allo “shock” delle importazioni Cinesi non si sarebbe risolto in un banale esercizio di statica comparata, ossia non avrebbe avuto le fattezze di un salto da un equilibrio all’altro del tipo descritto nei libri di testo. Molti economisti, all’epoca, non si rendevano conto che la Cina avrebbe di lì a poco finito con l’assumere il ruolo di leader nel mercato mondiale della manifattura. Nel 1990, la produzione cinese ammontava a un ventesimo di quella mondiale; 25 anni più tardi era cresciuta a un quarto del totale.

Ma non fu solo l’entità dello shock cinese a capovolgere l’ottimismo degli economisti; la reazione del mercato del lavoro, infatti, non fu rapida come essi avevano immaginato.

La concorrenza cinese ebbe ripercussioni particolarmente gravi in alcune specifiche aree geografiche. L’industria del mobile del Tennessee, ad esempio, venne colpita in modo particolarmente duro, mentre l’industria pesante della vicina Alabama quasi non conobbe crisi poiché la Cina non esportava beni industriali pesanti negli Stati Uniti. La concentrazione geografica dello shock cinese ha permesso agli economisti di studiare le caratteristiche del processo di aggiustamento del mercato del lavoro degli Stati Uniti.

EconTalk. 2016. ‘David Autor su commercio, Cina e mercato del lavoro in USA’. Library of Economics and Liberty. Aggiornato il 26 december 2016. David Autor e Gordon Hanson. NBER Reporter 2014 Number 2: Research Summary. Labor Market Adjustment to International Trade.

Le ricerche hanno mostrato che, in questo caso, il lungo periodo era davvero lungo. Le regioni esposte alla competizione cinese soffrirono grandi perdite e videro una marcata diminuzione dei posti di lavoro nel settore della manifattura. Non riuscendo a trovare un nuovo impiego nelle vicinanze, numerose persone rimaste disoccupate finirono con l’uscire dalla forza lavoro. A trasferirsi in altre reagioni furono in pochi: l’economia delle aree che alla fine degli anni Novanta furono colpite dalla crisi delle importazioni sono rimaste depressa per oltre vent’anni. Nel complesso, tra il 1999 e il 2011, lo shock cinese ha causato una perdita di 2,4 milioni di posti di lavoro.

L’analisi dello shock cinese ci avvicina insomma a Keynes piuttosto che a Varian. Se avessimo cercato di prevedere la dinamica del mercato del lavoro statunitense utilizzando nient’altro che un manuale di economia di base, avremmo immaginato grandi flussi di lavoratori da un settore di beni commerciabili all’altro (i beni commerciabili sono quelli che possono essere scambiati sui mercati internazionali). Ad esempio, avremmo potuto prevedere un movimento di lavoratori dal settore dell’abbigliamento ai settori farmaceutico e dell’aeronautica. Ci saremmo inoltre aspettati una modesta ricollocazione degli esuberi occupazionali dai settori commerciabili a quelli non commerciabili, senza alcun impatto netto sull’occupazione aggregata. Come abbiamo visto, tuttavia, l’effetto reale dello shock delle importazioni è stato molto diverso.

Gli aggiustamenti dell’economia dovuti all’introduzione di tecnologie labour-saving, studiati in questo capitolo, hanno anch’essi tempi lunghi.

Nel Capitolo 18 torneremo a concentrarci sul ruolo della Cina nel mercato globale e mostreremo che l’impatto dello shock cinese sull’economia tedesca fu diverso da quello registrato negli Stati Uniti.

16.8 Istituzioni e politiche economiche: perché alcuni paesi fanno meglio di altri?

Che cosa si intende per “buona” o “cattiva” performance? La risposta è importante sia per i cittadini, che al momento del voto sono chiamati a esprimere una preferenza per partiti con programmi economici alternativi, sia per i politici, alla continua ricerca di un modo per migliorare quei programmi. Abbiamo perciò bisogno di definire cosa sia desiderabile per l’individuo, per il decisore politico e per la nazione nel suo complesso.

Come abbiamo visto nel Capitolo 3, le persone attribuiscono un valore sia al tempo libero sia alla capacità di consumare beni e servizi. Le retribuzioni per ora lavorata dovrebbero essere quindi incluse nelle nostre valutazioni dei risultati economici. In un dato anno, una “buona” performance è tale da mantenere la disoccupazione a livelli bassi e i salari orari a livelli alti. Analogamente, adottando una prospettiva di tipo dinamico e concentrandoci sull’andamento dell’economia in un intervallo di tempo di diversi anni, un “buon” risultato combina una crescita rapida dei salari orari con una bassa disoccupazione.

Naturalmente vi sono molteplici altri aspetti che meritano di essere considerati per valutare le performance economiche di lungo periodo. Potremmo chiederci, ad esempio, se la distribuzione dei redditi sia più o meno diseguale, se l’economia sia o no sostenibile dal punto di vista ambientale e se le famiglie siano più o meno esposte ai rischi connessi alle fluttuazioni del ciclo economico. Di seguito ci concentreremo però unicamente sulla crescita dei salari reali orari e del tasso di disoccupazione.

Utilizzando il nostro modello del mercato del lavoro e la curva di Beveridge, possiamo constatare che il mantenimento di una buona performance è subordinato a due requisiti.

Il progresso tecnico causa la distruzione di posti di lavoro in quelle imprese nelle quali le nuove tecnologie vanno a sostituirsi ai lavoratori. L’occupazione, inoltre, può ridursi ogniqualvolta nuove imprese facciano la loro comparsa e le imprese che non sono in grado di adattarsi alle nuove condizioni di mercato siano costrette a chiudere. La curva di Beveridge sottolinea l’importanza di favorire l’incontro tra lavoratori e posti di lavoro vacanti. Nella figura 16.9b abbiamo visto che, in un primo momento, l’introduzione di una nuova tecnologia genera un esubero di lavoratori; la curva di Beveridge indica l’abilità di un’economia a reimpiegare rapidamente questi lavoratori, riducendo la durata della fase di transizione (figura 16.9b, punto D).

Nella figura 16.11 sono rappresentate le performance di lungo periodo (misurate lungo un intervallo di tempo di 40 anni) di un gruppo di economie avanzate. I criteri considerati sono quelli della crescita dei salari reali e del tasso di disoccupazione. L’adozione di una prospettiva di lungo periodo fa sì che la nostra valutazione non sia influenzata dalle fluttuazioni del ciclo economico (le performance di un’economia parranno sempre molto migliori nelle fasi di picco che non in quelle depressive). Consideriamo unicamente i salari relativi al settore della manifattura perché essi sono misurati con modalità che consentono la comparazione tra paesi; il rovescio della medaglia è che la quota dell’occupazione nazionale impiegata nella manifattura tende a ridursi nel tempo e varia da paese a paese.

I paesi che hanno registrato una buona performance, mantenendo un elevato tasso di crescita dei salari reali e una bassa disoccupazione, sono quelli situati nell’angolo in alto a sinistra della figura. Le performance peggiori, al contrario, sono quelle registrate nell’angolo in basso a destra. Dal momento che i nostri criteri di valutazione comprendono sia i salari reali sia l’occupazione, potremmo tollerare una crescita moderata dei salari reali nel caso in cui questa fosse associata a un basso livello della disoccupazione. Possiamo perciò rappresentare la curva di indifferenza di un cittadino come un raggio con inclinazione positiva passante per l’origine. La performance di un’economia è misurata dalla pendenza del raggio: a una maggiore pendenza corrispondono performance migliori. Guardiamo la figura 16.11 e consideriamo, ad esempio, il caso del Belgio (BEL): un cittadino belga preferirebbe situarsi su un raggio con pendenza maggiore, come ad esempio quello su cui sta la Germania (GER), la cui economia registra una minore disoccupazione e una maggiore crescita dei salari.

Disoccupazione e crescita dei salari reali nel lungo periodo in alcuni paesi OCSE (1970–2011).

Figura 16.11 Disoccupazione e crescita dei salari reali nel lungo periodo in alcuni paesi OCSE (1970–2011).

OECD Statistics; i dati relativi ai salari reali spagnoli sono disponibili solamente a partire dal 1979. La crescita dei salari spagnoli nel decennio 1970–1979 è perciò stata stimata utilizzando i dati riportati nelle Tabelle 16.25 e 16.5 di carreras.tafunell.05

I due raggi rappresentati nella figura 16.11 permettono di suddividere le economie in tre gruppi. I paesi che hanno registrato le migliori performance tra il 1970 e il 2011 sono la Norvegia e il Giappone. Le performances peggiori si registrano invece in Belgio, Italia, Stati Uniti, Canada e Spagna. La cattiva prestazione degli Stati Uniti secondo il criterio utilizzato è in parte imputabile al fatto che all’inizio del periodo considerato, negli anni Settanta, i salari reali del paese erano molto elevati. Gli USA, infatti, erano in quel periodo l’indiscusso leader tecnologico mondiale (come abbiamo visto nella figura 16.3); nei decenni successivi gli altri paesi hanno potuto pertanto aumentare maggiormente la produttività importando la tecnologia americana. Un ragionamento analogo si applica al caso canadese. Per questo motivo preferiamo non prendere questi due paesi come rappresentativi quando parliamo di economie con bassa performance; resta vero che negli Stati Uniti, nel periodo considerato, i salari reali sono cresciuti molto più lentamente rispetto alla produttività e la gran parte dei cittadini statunitensi non ha quindi beneficiato dalla crescita economica registrata.

Le economie di successo differiscono considerevolmente l’una dall’altra in quanto a istituzioni e politiche economiche. Alcuni tra i paesi che hanno registrato le performance migliori (e si collocano quindi su raggi con pendenza elevata), come ad esempio la Norvegia, la Svezia e la Germania, si caratterizzano per la presenza di sindacati potenti e organizzati. Altri paesi del Nord, come la Danimarca, sono dotati un sistema di indennità di disoccupazione tra i più generosi al mondo.

Nella figura 16.12 sono riproposti i dati relativi alla disoccupazione già mostrati nella figura 16.1. Questo volta, però, abbiamo evidenziato l’andamento nel tempo di due economie tra quelle con migliore performance e due tra quelle con performance peggiore. Le differenze tra la Norvegia e il Giappone da un lato, e l’Italia e la Spagna dall’altro, sono da ricercarsi nella disoccupazione più che nella crescita dei salari reali. La figura mostra in modo evidente che la disoccupazione spagnola e quella italiana sono cresciute considerevolmente sia dopo le crisi petrolifere degli anni Ottanta sia dopo la recente crisi finanziaria.

Andamento del tasso di disoccupazione in due economie molto performanti e due poco performanti (1960–2014).

Figura 16.12 Andamento del tasso di disoccupazione in due economie molto performanti e due poco performanti (1960–2014).

Dati dal 1960 al 2004: howell.etal.2007 Dati dal 2005 al 2012: OECD Statistics.

Più avanti vedremo come il modello introdotto in questo capitolo rappresenti un utile punto di riferimento per analizzare le performance del mercato del lavoro. Di seguito utilizzeremo invece il modello per spiegare perché le istituzioni e le politiche pubbliche giocano un ruolo importante nel determinare l’andamento di lungo periodo della disoccupazione e della crescita dei salari reali.

Esercizio 16.6 Se foste voi a decidere la politica economica

Facendo riferimento alla figura 16.11:

  1. Disegnate la curva di indifferenza di un cittadino o un politico interessato unicamente alla crescita dei salari.
  2. Sulla base dei dati riportati in figura, identificate i paesi che hanno avuto una buone o una cattiva performance.
  3. Disegnate la curva di indifferenza di un cittadino o politico interessato unicamente alla disoccupazione. Quali sarebbero, in questo caso, i paesi più e meno performanti?
  4. Utilizzando lo stesso grafico, disegnate ora una curva di indifferenza che rispecchia le vostre preferenze, motivando la vostra scelta.
  5. Sulla base delle vostre preferenze, in quale tra i paesi considerati nella figura vorreste vivere? Perché? Motivate la vostra scelta specificando quali sono i fattori economici che l’hanno determinata.

Domanda 16.9 Scegliete le risposte corrette

Nel grafico sottostante sono riportati il tasso medio di disoccupazione e la crescita media dei salari reali in alcuni paesi nel periodo 1970–2011.

Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • Considerando unicamente la disoccupazione, la Finlandia è il paese che ha registrato la performance migliore.
  • Considerando unicamente la crescita dei salari, le economie europee hanno registrato performances migliori rispetto a quelle nordamericane.
  • Considerando sia la crescita dei salari sia la disoccupazione, l’economia spagnola è una delle più performanti.
  • Considerando la crescita dei salari e la disoccupazione, la Finlandia ha fatto visibilmente meglio della Norvegia.
  • La performance migliore, per quanto riguarda la sola disoccupazione, è quella Giapponese.
  • La crescita dei salari reali è maggiore nelle economie europee.
  • La Spagna ha registrato una crescita elevata dei salari reali, ma anche un’elevata disoccupazione.
  • La Finlandia ha saputo mantenere la crescita dei salari a livelli elevati, ma presenta un’elevata disoccupazione. Se le curve di indifferenza dei cittadini hanno l’aspetto di rette passanti per l’origine, allora l’economia norvegese si trova su una curva di indifferenza più alta di quella finlandese.

16.9 Cambiamenti tecnologici, mercati del lavoro e sindacati

Le istituzioni e le politiche pubbliche contano. Possiamo elaborare ulteriormente questo punto andando a considerare le esperienze di alcune tra le economie che hanno registrato le migliori e peggiori prestazioni. Prenderemo come esempio tre paesi: la Norvegia e il Giappone da un lato e la Spagna dall’altro.

In Spagna e Norvegia i sindacati sono importanti, in Giappone no. In Norvegia oltre metà della forza lavoro salariata è iscritta a un sindacato e gli accordi salariali negoziati dai sindacati interessano la maggior parte dei lavoratori. In Spagna, per quanto gli accordi salariali giochino un ruolo importante, i lavoratori iscritti a un sindacato sono meno di un quinto del totale.

Copertura della contrattazione salariale e disoccupazione nei paesi OCSE (2000-2014).

Figura 16.13 Copertura della contrattazione salariale e disoccupazione nei paesi OCSE (2000-2014).

La figura 16.13 ci dà un’idea dell’importanza degli accordi sindacali e dell’entità della disoccupazione nell’area OCSE. Sull’asse delle ascisse è riportata la percentuale dei lavoratori il cui salario è determinato sulla base di un accordo collettivo sindacale. Possiamo notare che, in alcuni paesi europei, i contratti collettivi interessano la quasi totalità dei lavoratori. Nei paesi in cui la copertura della contrattazione salariale è superiore all’80%, la disoccupazione oscilla grossomodo tra il 4% (Paesi Bassi) e il 14% (Spagna). La figura suggerisce che, nei paesi in cui i sindacati giocano un ruolo importante nel processo di contrattazione salariale, non si registra alcuna tendenza alla crescita della disoccupazione. Bassi livelli di disoccupazione sono osservati lungo l’intero spettro dei valori del tasso di copertura della contrattazione collettiva; si considerino, ad esempio, la Corea del Sud e i Paesi Bassi, il Giappone e l’Austria, gli Stati Uniti e la Svezia.

Così come i datori di lavoro non offrono il minor salario possibile ai propri dipendenti, i sindacati non cercano di strappare il maggior salario possibile in sede negoziale. Gli imprenditori pagano salari sopra il minimo perché non sono in grado di controllare l’impegno profuso dai dipendenti nelle loro mansioni. Analogamente, i sindacati non puntano a contrattare il salario più alto possibile (ossia quel salario che ridurrebbe a zero la fetta di torta che va agli imprenditori) perché non sono in grado di controllare le decisioni delle imprese in merito ad assunzioni, licenziamenti e investimenti. Un livello dei salari particolarmente elevato, infatti, potrebbe finire col ridurre l’occupazione in conseguenza della diminuzione dei profitti delle imprese.

medio periodo
Il termine non si riferisce a un periodo di tempo di una specifica ‘media’ durata, ma a un orizzonte temporale durante il quale sono considerate esogeni rispetto al modello il valore totale dei beni capitali, le tecniche e le istituzioni, mentre le altre variabili (produzione, occupazione, prezzi e salari) sono trattate come endogene. Vedi anche: beni capitali, tecnica, istituzioni, breve periodo, lungo periodo
lungo periodo
Il termine non si riferisce a un periodo di una specifica ‘lunga’ durata, ma a un orizzonte temporale durante il quale la maggior parte delle variabili sono trattate come endogene. Una curva di costo di lungo periodo, ad esempio, si riferisce ai costi che l’impresa sostiene quando può variare le quantità di tutti gli input, compresi i beni capitali; le tecniche disponibili e le istituzioni invece si continuano a considerare esogene. Vedi anche: tecnica, istituzioni, breve periodo, medio periodo

Un sindacato organizzato in modo capillare, che associa i lavoratori di diverse imprese e settori, non eserciterà mai interamente il proprio potere contrattuale. I rappresentanti sindacali, infatti, sanno che un incremento dei salari consistente avrebbe le seguenti conseguenze:

sindacato inclusivo
Un sindacato che, rappresentando una pluralità di imprese o di settori, tiene conto degli effetti di un aumento salariale sull’andamento dell’occupazione nell’economia nel suo insieme nel lungo periodo.

Quando adottano questa linea di comportamento, siamo di fronte a sindacati inclusivi. I sindacati non inclusivi, al contrario, potrebbero negoziare salari elevati per i propri iscritti senza interessarsi dell’effetto che la contrattazione ha sulle imprese e sugli altri lavoratori, occupati e disoccupati. In modo analogo, sono dette inclusive le associazioni imprenditoriali che tengono in considerazione gli interessi di tutte le imprese, incluse quelle che potrebbero entrare le mercato e competere con quelle già operanti. Se i sindacati e le imprese adottano comportamenti inclusivi, è possibile che le istanze sindacali ottengano maggiore visibilità e godano di un effetto “cassa di risonanza”. Come abbiamo osservato nel Capitolo 9, questo riduce la disutilità del lavoro contribuendo ad abbassare la curva della fissazione del salario.

Il caso scandinavo: quando i sindacati e le associazioni degli imprenditori si comportano in modo inclusivo

Un esempio paradigmatico di comportamenti di tipo inclusivo viene dalle associazioni sindacali e imprenditoriali della Norvegia e degli altri paesi scandinavi. Le loro attività di negoziazione collettiva si sono concentrate sull’ottenimento di un salario uguale per un uguale lavoro, impedendo così alle imprese poco produttive di ricorrere a manodopera sottopagata e spingendo molte di esse a uscire dal mercato. Un rapido riassorbimento della forza lavoro rimasta disoccupata verso imprese più produttive ha poi permesso di aumentare la produttività media del lavoro, spostando verso l’alto la curva della fissazione del prezzo e consentendo ai salari di crescere.

Le organizzazioni sindacali inclusive si battono inoltre per l’introduzione e il mantenimento di minimi salariali cospicui e di un servizio sanitario nazionale pubblico di alta qualità, così da ridurre i rischi ai quali la maggior parte degli individui è esposta. Le attività sindacali inclusive permettono così di contenere gli effetti più negativi del processo di distruzione creatrice sulla vita delle persone, rendendo queste ultime più favorevoli al cambiamento e incoraggiando il dinamismo della società.6

Adrian Wooldridge. 2013. ‘Northern Lights’. The Economist. Aggiornato il 2 febbraio 2013.

Le cosiddette “politiche attive dell’occupazione” facilitano il processo di incontro di domanda e offerta di lavoro, consentendo ai lavoratori rimasti senza un impiego (ad esempio a causa del fallimento di un’impresa scarsamente produttiva, dovuto alla pressione esercitata dall’introduzione di accordi salariali collettivi) di essere assunti rapidamente altrove. In questo caso la curva di Beveridge, riportata nella figura 16.14, è molto più vicina all’origine degli assi di quanto non lo siano, ad esempio, la curva della Spagna o quelle della Germania o degli Stati Uniti, rappresentate nella figura 16.6.

Le curve di Beveridge di Spagna e Norvegia (2001–2013).

Figura 16.14 Le curve di Beveridge di Spagna e Norvegia (2001–2013).

Un sindacato inclusivo tiene conto dei due grandi problemi di incentivazione che caratterizzando le economie capitaliste: indurre gli imprenditori a investire e motivare i dipendenti a impegnarsi nel loro lavoro. In alcuni casi — ad esempio in Svezia, dove esistono tre forti federazioni sindacali centralizzate — i leader dei sindacati sanno persuadere i propri iscritti del fatto che, nel lungo periodo, lo spostamento verso il basso della curva della fissazione del salario farà crescere l’occupazione senza ridurre le retribuzioni.

Questo spiega perché le richieste salariali dei sindacati dei paesi scandinavi (Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca) siano legate alla produttività del lavoro. Quando la produttività cresce, i sindacati negoziano un giusto adeguamento salariale. Il potere contrattuale derivante dalla bassa disoccupazione, dall’alto livello di associazionismo e dalla possibilità di stipulare accordi di valenza nazionale, viene utilizzato per spostare verso l’alto la curva della fissazione del salario solo quando questo è giustificato da un aumento della produttività. I sindacati scandinavi favoriscono inoltre l’introduzione di politiche che rendano l’attività lavorativa meno onerosa, spostando la curva della fissazione del salario verso il basso e incrementando ulteriormente l’occupazione nel lungo periodo.

Il caso giapponese: le associazioni datoriali inclusive

Al contrario di quanto avviene nei paesi scandinavi, i sindacati giapponesi sono deboli. I lavoratori sono però ben organizzati all’interno di imprese di larghe dimensioni, e vi sono potenti associazioni degli imprenditori che si adoperano per coordinare le politiche salariali di queste imprese. Le associazioni imprenditoriali svolgono dunque un ruolo non dissimile da quello dei sindacati norvegesi, prendendo decisioni in materia salariale che tengono conto del loro impatto sull’intera economia. Le grandi imprese, inoltre, evitano deliberatamente di competere le une con le altre per l’assunzione dei dipendenti, così da contenere la crescita dei salari.

Il caso spagnolo: i sindacati non inclusivi

Le organizzazioni sindacali spagnole sono forti, ma non agiscono in modo inclusivo e si occupano principalmente di proteggere i posti di lavoro esistenti (spesso sostenute in questo dalle politiche governative). La compresenza di sindacati non inclusivi e politiche economiche accomodanti potrebbe spiegare in parte le modeste performance del mercato del lavoro spagnolo.

Basandoci sul nostro modello del mercato del lavoro, potremmo predire che la Spagna si caratterizzi per tassi di disoccupazione elevati, mentre in Norvegia e Giappone avvenga il contrario. Guardando i dati, possiamo constatare che è proprio così.

Sussidi di disoccupazione e disoccupazione

tasso di rimpiazzo dei sussidi di disoccupazione
Il rapporto tra il sussidio di disoccupazione e il salario corrisposto prima delle perdita del lavoro (entrambi calcolati al lordo delle imposte).

Le attività delle organizzazioni sindacali inclusive, così come le misure coassicurative di politica economica, hanno effetti pro-occupazione che possono aiutare a spiegare un’apparente anomalia: i paesi che garantiscono sussidi di disoccupazione generosi non si caratterizzano per la presenza di tassi di disoccupazione maggiori rispetto alle altre economie (si veda la figura 16.15).

Sussidi e tassi di disoccupazione nell’area OCSE (2001–2011).

Figura 16.15 Sussidi e tassi di disoccupazione nell’area OCSE (2001–2011).

Parliamo di anomalia perché, stando al nostro modello, un aumento dei sussidi di disoccupazione dovrebbe causare, a parità di condizioni, una diminuzione del costo sofferto dai lavoratori per la perdita del lavoro, provocando così uno spostamento verso l’alto della curva della fissazione del salario.

Esemplificativo, a questo riguardo, è il rapporto che lega tasso e sussidi di disoccupazione in Norvegia e Italia. Un lavoratore norvegese rimasto disoccupato percepisce un sussidio di disoccupazione che ammonta a quasi il 50% dell’ultima retribuzione percepita (al lordo delle imposte); in Italia, al contrario, il tasso di rimpiazzo al lordo delle imposte ammonta al 10% e la disoccupazione si attesta su livelli ben più alti rispetto alla Norvegia. I paesi che sono in grado di introdurre sussidi di disoccupazione generosi ma ben concepiti, coadiuvati da servizi per l’accompagnamento al lavoro e altre politiche attive, sono in grado di mantenere il tasso di disoccupazione a livelli bassi. Permettere alle famiglie di stabilizzare i propri consumi nel tempo, permettendo loro di fronteggiare eventuali shock, può renderle più propense all’adozione di nuove tecnologie, spostando verso l’alto la curva della fissazione del prezzo.

Esercizio 16.7 Tassi di disoccupazione e istituzioni del mercato del lavoro

Succede, talvolta, di sentire che l’elevata disoccupazione di alcuni paesi europei rispetto agli Stati Uniti durante gli anni Novanta e Duemila fosse dovuta al fatto che, in Europa, le istituzioni del mercato del lavoro erano particolarmente rigide (e caratterizzate, ad esempio, da sindacati potenti, sussidi di disoccupazione molto elevati e una legislazione in materia di protezione dell’occupazione troppo stringente).7

  1. Con l’ausilio della figura 16.1, verifica se è vero o no che la disoccupazione dei paesi Europei fosse sempre superiore a quella statunitense.

  2. Basandoti sulle nozioni apprese in questo capitolo e aiutandoti con le figure 16.1, 16.13 e 16.15, commenta la tesi secondo cui l’elevata disoccupazione europea sarebbe dovuta alla presenza di istituzioni del mercato del lavoro troppo rigide.

Domanda 16.10 Scegliete le risposte corrette

Il grafico sottostante mette in relazione il tasso di disoccupazione e il tasso di densità sindacale nel periodo 2000–2012. Il tasso di densità sindacale è definito dal rapporto tra il numero dei lavoratori che sono iscritti a un sindacato e il totale della forza lavoro.

Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • Un tasso di densità sindacale elevato è condizione necessaria per un tasso di disoccupazione basso.
  • Un tasso di densità sindacale basso determina un’elevata disoccupazione.
  • Considerando unicamente i paesi scandinavi (Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia), si può affermare che un tasso di densità sindacale elevato si traduce in un basso tasso di disoccupazione.
  • I dati relativi alla disoccupazione mostrano che, a parità di densità sindacale, le organizzazioni sindacali sono più inclusive in Norvegia che in Belgio.
  • La Corea ha un tasso di densità sindacale basso ma ha comunque bassi tassi di disoccupazione.
  • La Repubblica Ceca ha un tasso di densità sindacale simile a quello della Slovacchia, ma a differenza di quest’ultima ha anche una bassa disoccupazione.
  • In Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia la correlazione tra tasso di disoccupazione e tasso di densità sindacale è positiva. Il tasso di disoccupazione è dunque elevato pur a fronte di alti tassi di densità sindacale.
  • Il tasso di disoccupazione norvegese è inferiore a quello belga, mentre il tasso di densità sindacale dei due paesi è simile. Questo suggerisce che i sindacati siano più inclusivi in Norvegia che in Belgio.

16.10 Cambiamenti delle istituzioni e politiche

Le istituzioni e le politiche economiche giocano dunque un ruolo importante nello spiegare le differenze tra paesi in termini di occupazione e crescita di salari. Possiamo dunque supporre che i cittadini spagnoli, potendo scegliere, vorrebbero che il loro paese si dotasse di istituzioni analoghe a quelle del Giappone o dei paesi scandinavi. Cambiare le istituzioni, tuttavia, non è facile, perché crea inevitabilmente vinti e vincitori.

Nei paesi che hanno introdotto cambiamenti nelle loro politiche, le cose sono cambiate considerevolmente. Ad esempio, tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, il Regno Unito e i Paesi Bassi avevano conosciuto un aumento significativo del tasso di disoccupazione a causa dei due shock petroliferi (che avevano spostato verso il basso la curva della fissazione del prezzo) e di un aumento del potere negoziale dei lavoratori (che aveva spostato verso l’alto la curva della fissazione del salario). L’andamento della disoccupazione nei due paesi è illustrato nella figura 16.16. Un cambio di rotta delle politiche economiche adottate dai due paesi, però, ha fatto sì che le cose cambiassero. Nel Regno Unito, tra il 1985 e il 2002, la disoccupazione è calata dall’11,6% al 5,1%, mentre nei Paesi Bassi è calata dal 9,2% al 2,8% nello stesso intervallo di tempo.

Diversi modi per far abbassare la curva della fissazione del salario: Paesi Bassi e Regno Unito a confronto.

Figura 16.16 Diversi modi per far abbassare la curva della fissazione del salario: Paesi Bassi e Regno Unito a confronto.

howell.etal.2007 Dati dal 2005 tal 2012: OECD harmonized unemployment rates. OECD Statistics.

I due paesi hanno stimolato la propria economia spostando verso il basso la curva della fissazione del salario, ma ci sono riusciti prendendo strade diverse:

Un punto di svolta nel processo di trasformazione del mercato del lavoro olandese è stato l’Accordo di Wassenaar, stipulato nel 1982 tra le rappresentanze di lavoratori e quelle dei datori di lavoro. L’accordo prevedeva una riduzione salariale (uno spostamento verso il basso della curva di fissazione del salari) in cambio di una diminuzione delle ore lavorate. I sindacati hanno dunque accettato che la riduzione delle ore lavorate non facesse crescere i costi delle imprese (e non provocasse dunque uno spostamento verso il basso della curva della fissazione del prezzo).

Il caso olandese mostra come le associazioni di lavoratori e datori di lavoro possano coordinarsi per far transitare l’economia verso un quadro macroeconomico favorevole. Sindacati e organizzazioni datoriali erano sufficientemente potenti da assicurarsi che i propri iscritti aderissero all’accordo. I sindacati hanno volutamente limitato il proprio potere contrattuale al fine di migliorare la performance del mercato del lavoro e quindi dell’economia intera.

Come abbiamo detto, la curva della fissazione del salario si è spostata verso il basso anche nel Regno Unito. In questo caso, però, lo spostamento è imputabile a una riforma della legislazione in materia di mercato del lavoro. La riforma ha alterato il potere contrattuale dei sindacati, rendendo più difficile per i sindacati non inclusivi organizzare iniziative di sciopero.

Esercizio 16.8 Il modello del mercato del lavoro

Spiegate come sia possibile utilizzare il nostro modello del mercato del lavoro (le curve di determinazione di prezzi e salari) per spiegare i cambiamenti delle performance registrate nei mercati del lavoro olandese e britannico tra il 1970 e il 2000. L’articolo sopra citato di Nickell e van Ours (2000) è un buon riferimento per rispondere alla domanda.

16.11 Il rallentamento della produttività nel settore dei servizi e i cambiamenti nella natura del lavoro

Ascesa e declino dell’occupazione nella manifattura

Come abbiamo visto nel Capitolo 1, prima della Rivoluzione Industriale la produzione era organizzata per lo più a livello familiare. Non vi erano lavoratori dipendenti salariati ma produttori indipendenti, che realizzavano beni destinati all’uso domestico e alla vendita. La Rivoluzione industriale e l’ascesa del sistema economico capitalistico hanno spostato il lavoro dalle famiglie e dalle campagne verso le imprese, trasformando i produttori indipendenti in dipendenti.

Grazie al progresso tecnico e all’automatizzazione della produzione, molti beni di consumo sono divenuti più economici. Ciò ha fatto sì che i tessuti e i capi di vestiario che un tempo erano realizzati tra le mura domestiche venissero acquistati con i salari guadagnati lavorando in fabbrica. Il risultato di questo processo è stato un aumento significativo e duraturo dell’occupazione nel settore dell’industria. Il settore della manifattura rappresenta la maggior parte della forza lavoro salariata dell’intera industria, tanto che i termini ‘manifattura’ e ‘industria’ sono spesso usati in modo interscambiabile.

Le innovazioni labour-saving hanno inoltre reso l’agricoltura più produttiva. E poiché al crescere della ricchezza la quota del reddito destinata all’alimentazione diminuisce, la frazione della forza lavoro occupata nel settore agricolo è diminuita anch’essa. Il declino dell’occupazione nell’agricoltura e l’ascesa della manifattura hanno significato per molti un miglioramento delle opportunità offerte dall’economia. A questi cambiamenti hanno contribuito sindacati e partiti dei lavoratori, le cui lotte hanno portato a un miglioramento delle condizioni di lavoro offerte dagli imprenditori.

Questa tendenza, tuttavia, non era destinata a durare per sempre. La figura 16.17 mostra che, nella maggior parte delle grandi economie, la fase di espansione dell’occupazione manifatturiera si è arrestata negli ultimi 25 anni del XX secolo. Così come la manifattura aveva rimpiazzato l’agricoltura come principale fonte di occupazione, il settore dei servizi ha finito con il sottrarre questo primato alla manifattura. Seguendo i passaggi descritti nella figura possiamo per vedere come le economie industriali abbiano sperimentato, in diversi momenti del secolo, una fase di crescita e di declino dell’occupazione nel settore manifatturiero.

Ascesa e declino della quota di occupati nell’industria (1870–2013).

Figura 16.17 Ascesa e declino della quota di occupati nell’industria (1870–2013).

US Bureau of Labor Statistics, International Labor Comparisons (ILC), aggiornato il 14 ottobre 2004; International Labour Association, ILOSTAT Database; The Conference Board, International Comparisons of Annual Labor Force Statistics, 2013.

La diminuzione dell’occupazione nell’industria

I primi paesi a sperimentare una contrazione della quota dell’occupazione impiegata nell’industria sono stati gli Stati Uniti e il Regno Unito nel 1950 circa, seguiti dalla Germania 20 anni più tardi.

Figura 16.17a I primi paesi a sperimentare una contrazione della quota dell’occupazione impiegata nell’industria sono stati gli Stati Uniti e il Regno Unito nel 1950 circa, seguiti dalla Germania 20 anni più tardi.

US Bureau of Labor Statistics, International Labor Comparisons (ILC), aggiornato il 14 ottobre 2004; International Labour Association, ILOSTAT Database; The Conference Board, International Comparisons of Annual Labor Force Statistics, 2013.

La crescita dell’industria della Corea del Sud è iniziata nell’ultimo quarto del Novecento. Alla fine del secolo, tuttavia, la quota dell’occupazione impiegata nell’industria stava già calando.

Figura 16.17b La crescita dell’industria della Corea del Sud è iniziata nell’ultimo quarto del Novecento. Alla fine del secolo, tuttavia, la quota dell’occupazione impiegata nell’industria stava già calando.

US Bureau of Labor Statistics, International Labor Comparisons (ILC), aggiornato il 14 ottobre 2004; International Labour Association, ILOSTAT Database; The Conference Board, International Comparisons of Annual Labor Force Statistics, 2013.

La manifattura in Taiwan e Germania

Taiwan ha oggi una quota dell’occupazione impiegata nella manifattura superiore a quella della Germania.

Figura 16.17c Taiwan ha oggi una quota dell’occupazione impiegata nella manifattura superiore a quella della Germania.

US Bureau of Labor Statistics, International Labor Comparisons (ILC), aggiornato il 14 ottobre 2004; International Labour Association, ILOSTAT Database; The Conference Board, International Comparisons of Annual Labor Force Statistics, 2013.

La manifattura in Cina

Diversamente dalle altre economie rappresentate nella figura, in Cina il settore della manifattura ha continuato a crescere anche nel XXI secolo.

Figura 16.17d Diversamente dalle altre economie rappresentate nella figura, in Cina il settore della manifattura ha continuato a crescere anche nel XXI secolo.

US Bureau of Labor Statistics, International Labor Comparisons (ILC), aggiornato il 14 ottobre 2004; International Labour Association, ILOSTAT Database; The Conference Board, International Comparisons of Annual Labor Force Statistics, 2013.

Il rallentamento della produttività nel settore dei servizi

In tutti i paesi considerati nella figura 16.17, la quota della forza lavoro impiegata nel settore agricolo è andata diminuendo. Oggi, nelle economie avanzate, meno di un lavoratore su 20 è occupato nell’agricoltura. Più recentemente le economie hanno conosciuto una transizione dalla produzione di beni (manufatti e agricoli) a quella di servizi. I dati indicano inoltre che la produzione oraria per addetto (ossia la produttività) sta crescendo più lentamente nel settore dei servizi di quanto non lo faccia nel settore della manifattura. Questa differenza ha due conseguenze:

Il primo effetto ha avuto un impatto maggiore del secondo.

Per spiegare come avviene il processo descritto, assumiamo per semplicità che il secondo dei due effetti sia assente. Ciò equivale ad assumere che le persone consumino beni (ad esempio, camicie) e servizi (tagli di capelli) in proporzione costante. L’esempio delle camicie e dei tagli di capelli permette di illustrare come mai la produttività cresca più lentamente nel settore dei servizi: un taglio di capelli richiede oggi grosso modo lo stesso tempo rispetto a 100 o 200 anni fa, mentre la produzione di una camicia richiede un tempo considerevolmente minore di quanto non richiedesse 200 anni fa (meno di un quinto, verosimilmente).

La figura 16.18 presenta il nostro modello: l’ammontare totale della forza lavoro è posto per semplicità pari a uno (tale quantità potrebbe corrispondere, ad esempio, a un milione di ore di lavoro). Se tutto il lavoro è destinato alla produzione di beni, l’economia produce un ammontare di beni pare a uno. Analogamente, se tutto il lavoro è destinato alla produzione di servizi, l’economia produce un’unità di servizi.

La linea rossa continua rappresenta la frontiera delle possibilità produttive. Essa denota l’ammontare di beni e servizi che è possibile produrre dati i limiti posti dalla tecnologia e dalla disponibilità di ore di lavoro. Assumiamo che nell’economia si consumino lo stesso numero di unità di beni e servizi; inizialmente, quindi, le quantità di beni e servizi consumate sono entrambe pari a 1/2. Supponiamo che, in un secondo momento, la produttività cresca nel settore della manifattura ma rimanga costante nel settore dei servizi. Questo fa sì che il costo, e quindi il prezzo, dei beni diminuisca relativamente a quello dei servizi. Seguendo i passaggi descritti nella figura analizziamo l’effetto di questa variazione sull’occupazione.

Un incremento della produttività nella produzione di beni fa crescere la frazione di lavoratori impiegata nella produzione di servizi.

Figura 16.18 Un incremento della produttività nella produzione di beni fa crescere la frazione di lavoratori impiegata nella produzione di servizi.

La frontiera delle possibilità produttive

La linea rossa continua indica la frontiera delle possibilità produttive e rappresenta l’ammontare di beni e servizi che è possibile produrre date la tecnologia e la quantità di lavoro disponibile.

Figura 16.18a La linea rossa continua indica la frontiera delle possibilità produttive e rappresenta l’ammontare di beni e servizi che è possibile produrre date la tecnologia e la quantità di lavoro disponibile.

Il consumo di beni è pari al consumo di servizi

Assumiamo che beni e servizi vengano consumati nella stessa quantità. In corrispondenza del punto A, le quantità consumate sono entrambe pari a 1/2.

Figura 16.18b Assumiamo che beni e servizi vengano consumati nella stessa quantità. In corrispondenza del punto A, le quantità consumate sono entrambe pari a 1/2.

La produttività aumenta nel settore della manifattura

La produttività nel settore della manifattura raddoppia, mentre la produttività nel settore dei servizi rimane invariata. La nuova frontiera delle possibilità produttive è data dalla linea rossa tratteggiata.

Figura 16.18c La produttività nel settore della manifattura raddoppia, mentre la produttività nel settore dei servizi rimane invariata. La nuova frontiera delle possibilità produttive è data dalla linea rossa tratteggiata.

Più beni, meno servizi

Se le persone continuano a consumare beni e servizi in quantità uguali, l’economia transiterà al punto B. In corrispondenza di questo punto, il consumo di beni e quello di servizi sono entrambi pari a 2/3.

Figura 16.18d Se le persone continuano a consumare beni e servizi in quantità uguali, l’economia transiterà al punto B. In corrispondenza di questo punto, il consumo di beni e quello di servizi sono entrambi pari a 2/3.

Uno spostamento dell’occupazione

Nel punto B, la forza lavoro si è spostata dalla produzione di beni (un terzo del totale) a quella di servizi (due terzi del totale).

Figura 16.18e Nel punto B, la forza lavoro si è spostata dalla produzione di beni (un terzo del totale) a quella di servizi (due terzi del totale).

Con il passare del tempo la forza lavoro si è spostata dalla produzione di beni a quella di servizi; il modello è pensato per spiegare quali forze determinino questo cambiamento. Nella realtà, naturalmente, vi sono fattori che nel modello non trovano spazio ma che hanno contribuito a influenzare il processo di spostamento del lavoro. Due di questi fattori ne hanno limitato la portata, mentre un terzo fattore ha contribuito ad amplificarlo.

Nei paesi in cui si registra una diminuzione della quota degli occupati impiegati nella produzione di beni, l’effetto netto dei fattori esclusi dal modello non è sufficiente ad invertire la tendenza alla de-industrializzazione della forza lavoro.

Un’ulteriore complicazione viene dal fatto che molti beni consumati sono prodotti all’estero, e che alcuni paesi sono importatori netti mentre altri sono esportatori netti. Questo spiega in parte perché i grafici “a gobba” riportati nella figura 16.17 abbiano un andamento diverso l’uno dall’altro. Il commercio internazionale e le opportunità di specializzazione che esso genera hanno accelerato il declino dell’occupazione manifatturiera in alcuni paesi (gli Stati Uniti e il Regno Unito, ad esempio) e l’hanno rallentato in altri (Germania e Corea del Sud).

La crescita della quota della forza lavoro cinese impiegata nella manifattura riflette una tendenza già vista nelle economie oggi più avanzate, nonché la specializzazione di questo paese nell’esportazione di manufatti. L’Einstein alla fine di questo paragrafo illustra nel dettaglio la logica che sta dietro all’analisi svolta nella figura 16.18 per studiare gli effetti di un aumento della produttività nella produzione di beni.

Einstein Come la crescita della produttività nel settore manifatturiero determina uno spostamento dell’occupazione dalla produzione di beni a quella di servizi.

Questo Einstein si sofferma sulla logica alla base della figura 16.18, spiegando perché un aumento della produttività nel settore della manifattura determini uno spostamento dell’occupazione verso le imprese impegnate nella fornitura di servizi. Sia λs la produttività del lavoro nel settore dei servizi, pari al rapporto tra la quantità di servizi offerti e la quantità di lavoro necessaria per la loro realizzazione. Dunque, λs = Qs/Ls. Nel nostro modello sono verificate le seguenti uguaglianze:

  • λsLs = Qs: la quantità dei servizi è data dal prodotto tra la produttività del lavoro nel settore dei servizi e l’ammontare di lavoro impiegato in tale settore.
  • Qs = Qg: la produzione di beni è pari alla produzione di servizi (questo non è vero in generale, ma nel nostro modello abbiamo assunto che lo sia).
  • Qg = λgLg: la quantità dei beni è data dal prodotto tra produttività del lavoro nel settore della manifattura e l’ammontare di lavoro impiegato in tale settore.

Possiamo uguagliare i termini della prima e della terza equazione per ricavare un’espressione della quantità di lavoro impiegata nei due settori in funzione della produttività in ciascun settore. Se le quantità prodotte nei due settori sono uquali, abbiamo:

siccome la somma di Lg e Ls è uno, l’equazione può essere riscritta come:

Riarrangiando l’equazione, la quantità di lavoro destinata alla produzione di servizi può essere quindi espressa come:

Nella figura la produttività dei due servizi è pari a 1, per cui la quota della forza lavoro impegnata nella produzione di beni è 1/2. Quando la produttività del lavoro nel settore della manifattura raddoppia, abbiamo:

Quest’ultima è la quota della forza lavoro destinata alla produzione di servizi in seguito all’incremento della produttività del lavoro nel settore della manifattura.

Domanda 16.11 Scegliete le risposte corrette

Nella Figura 16.18 sono riportate le quote della forza lavoro impiegata nel settore manifatturiero in diversi paesi. Sulla base di queste informazioni, quale delle seguenti affermazioni è corretta?

  • La quota della forza lavoro occupata nella manifattura si è ridotta in tutti i paesi considerati.
  • Negli USA e nel Regno Unito lo spostamento dell’occupazione dal settore manifatturiero ai servizi ha avuto inizio negli anni Cinquanta.
  • La quota dell’occupazione impiegata nella manifattura è sempre stata maggiore nel Regno Unito che negli Stati Uniti.
  • Le economie dell’Estremo Oriente si caratterizzano oggi per una maggiore quota della forza lavoro occupata nella manifattura rispetto alla Germania, al Regno Unito o agli Stati Uniti.
  • In Cina e Taiwan tale quota non è calata.
  • USA e Regno Unito sono i paesi che hanno sperimentato per primi il declino della quota dell’occupazione impiegata nella manifattura.
  • Nel grafico, la curva relativa all’economia Britannica è più in alto di quella statunitense.
  • La quota dei lavoratori impiegati nel settore manifatturiero è ancora più elevata in Germania che non in Giappone e Corea.

16.12 Salari e disoccupazione nel lungo periodo

Abbiamo visto che le economie differiscono non soltanto per quanto riguarda la velocità del processo di aggiustamento dell’economia a fronte di innovazione tecniche e altri cambiamenti, ma anche per i livelli di salari e disoccupazione che esse sono in grado di sostenere nel lungo periodo.

Salari e disoccupazione, a loro volta, dipendono da una serie di fattori, passati in rassegna nei capitoli precedenti. La figura 16.19 schematizza i fattori più importanti nel determinare i tassi di disoccupazione e di crescita dei salari reali, specificando in quali capitoli ciascun fattore è stato analizzato.

Sulla base di questo schema, la figura 16.20 sintetizza invece quali sono le istituzioni e le politiche pubbliche che possono influenzare la crescita dei salari reali e del tasso di disoccupazione.

Le determinanti del tasso di disoccupazione e del tasso di crescita dei salari reali nel lungo periodo.

Figura 16.19 Le determinanti del tasso di disoccupazione e del tasso di crescita dei salari reali nel lungo periodo.

Le istituzioni e politiche che possono influenzare disoccupazione e salari reali.

Figura 16.20 Le istituzioni e politiche che possono influenzare disoccupazione e salari reali.

16.13 Conclusioni

La disoccupazione è un fallimento del mercato: alcune persone, pur essendo disposte a lavorare al salario corrente, non sono in grado di trovare nessuno che sia disposto ad assumerle. La distruzione di posti di lavoro è un fenomeno tipico delle economie capitaliste, dovuto al fatto che il progresso tecnico aumenta la produttività e genera esuberi occupazionali nei settori interessati dalle innovazioni. Un’economia ben funzionante, però, si caratterizza anche per la presenza di investimenti che determinano la creazione di posti di lavoro in numero almeno pari ai posti distrutti.

Incentivare le imprese a investire nel progresso tecnico e nella creazione di posti di lavoro è uno dei due problemi fondamentali delle economie capitalistiche. Il secondo problema è quello di indurre i lavoratori a impegnarsi nell’esecuzione dei propri compiti. Abbiamo analizzato questi problemi di incentivi utilizzando le curve della fissazione del salario e dei prezzi. Le due curve indicano, rispettivamente, il salario minimo che garantisce l’impegno dei lavoratori e il salario massimo che le imprese sono in grado di pagare riuscendo a coprire i propri costi.

Ciò che principalmente caratterizza le economie più performanti è che in tali economie le istituzioni e le politiche pubbliche incentivano gli agenti economici ad occuparsi di come aumentare le dimensioni complessive della torta più che di come ottenerne una fetta maggiore per sé.

Concetti introdotti nel Capitolo 16

Prima di procedere, assicurati di aver compreso i seguenti concetti:

  1. Hobsbawm, E. e G. Rudé (1969), Captain Swing, Lawrence and Wishart, Londra (trad. it. Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne, Editori Riuniti, Roma, 1973). 

  2. Rifkin, J. (1996), The End of Work: The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era, G. P. Putnam’s Sons, New York (trad. it. La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano, 1997). 

  3. Habakkuk, H. John. (1967), American and British Technology in the Nineteenth Century: The Search for Labour Saving Inventions, Cambridge University Press, Cabridge (UK). 

  4. Nelson, R. R. e G. Wright (1992), “The rise and fall of American technological leadership: the Postwar Era in historical perspective”, Journal of Economic Literature, 30, pp. 1931–1964. 

  5. Keynes, J. M. (1923), A Tract on Monetary Reform, Macmillan, Londra (trad. it. La riforma monetaria, Treves, Milano, 1925). 

  6. Andersen, T.M., B. Holmström, S. Honkapohja, S. Korkman, H. T. Söderström e J. Vartiainen (2007), The Nordic Model: Embracing Globalization and Sharing Risks, Taloustierto Oy, Helsinki. 

  7. Puoi scoprire di più sul ruolo delle istituzioni nel determinare la disoccupazione in Europa leggendo questi articoli: Blanchard, O. e J. Wolfers (2000), “The role of shocks and institutions in the rise of European unemployment: the aggregate evidence”, The Economic Journal, 110, pp. 1–33. Howell, D. R., D. Baker, A. Glyn e J. Schmitt (2007), “Are protective labor market institutions at the root of unemployment? A critical review of the evidence”, Capitalism and Society, 2, pp. 1–73. 

  8. Nickell, S. e J. van Ours (2000), “The Netherlands and the United Kingdom: a European unemployment miracle?”, Economic Policy, 15, pp. 136–180.